I quartieri dei quali Siracusa era formata non vennero considerati dagli scrittori antichi che ce ne hanno lasciato memoria come parti di un tutto organico, sibbene come vere e proprie città indipendenti le une dalle altre, al punto da chiamare Siracusa la “Pentapoli”; e le cinque città sarebbero appunto state Ortigia, Acradina, Tiche, Neapoli, Epipoli.
Ci pare che questa concezione non sia accettabile; intanto, pur volendo restare all’interno della sua logica, non si dovrebbe parlare di cinque città ma di quattro; l’urbanizzazione di un quartiere come l’Epipoli non fu dovuta, infatti, a motivi di ordine urbanistico, ma a scopi militari. La recinzione di tutto il vasto altopiano dominante la città al cui culmine, tattico e topografico, venne realizzato l’Eurialo, rispondeva all’elementare necessità di non lasciare, al di sopra della cerchia muraria, una zona naturalmente fortificata dalla quale i nemici incombenti avrebbero potuto facilmente dominare la strategia di un assedio. La decisione di Dionigi il Vecchio fu quindi assolutamente necessaria e salvò Siracusa da tutti i suoi assedi, afforzando mirabilmente le difese della città ancorate com’erano a quella formidabile fortezza che fu l’Eurialo. La zona non era urbanizzata; vi era soltanto la presenza di qualche rado insediamento, in particolare ville suburbane, sul quale andò a innestarsi un certo popolamento, mai tuttavia tanto intenso da poter far parlare di “città” a sé stante. È altrimenti chiaro che se, la città avendo raggiunto con Dionigi la propria massima estensione demografica e topografica, il quartiere dell’Epipoli non venne abitato fittamente in quell’epoca non lo fu mai più.
L’unico quartiere di Siracusa facente parte a sé, dal tempo di Dionigi, fu Ortigia che il tiranno assunse a dimora fortificata per sé e per i suoi mercenari, funzionari, tesorieri. Ma in realtà il ruolo urbanistico di Ortigia era sempre relativizzato alla città retrostante, tutta la sua struttura edilizia ne era condizionata. Essa ne era l’Acropoli, la cittadella, e insieme il centro direzionale e il luogo delle più antiche memorie religiose. Dalla trasformazione di Dionigi l’isola non cesserà più di avere questa sua destinazione, se si fa eccezione dell’epoca timoleontea; il condottiero corinzio in effetti si adoperò per ricreare un coerente legame urbano fra Ortigia e la terraferma, per scopi politici. Fu abbattuta la grande fortezza di Dionigi che, militarmente e probabilmente anche topograficamente, doveva avere lo stesso ruolo del forte spagnolo del secolo XVI, eretto a sbarrarne l’accesso.
Si può però facilmente argomentare che già con lerone l’isola aveva ripreso il volto impressole da Dionigi. I grandi granai costruitivi da lerone infatti erano probabilmente fortificati, come si può arguire da un passo di T. Livio (libro XXIV) narrante i tumulti accaduti in Siracusa alla morte di Geronimo. Narra Livio che “nell’isola, fra gli altri luoghi, mette specialmente guardia ai pubblici granai. Il luogo accerchiato da sassi quadrati e fortificato a guida di rocca ... “. In più Gerone Il si era fatto costruire un palazzo fortificato, più tardi residenza dei pretori romani, che doveva ricalcare il ruolo della fortezza di Dionigi, demolita da Timoleonte. Le mura stesse di Ortigia erano state riparate, dalla parte della città, e tutto il sistema era munito di una porta fortificata; si ritiene che questa porta non ripetesse il complesso schema della porta dionigiana, demolita da Timoleonte.
Questo ruolo urbanistico Ortigia continuerà a giocarlo anche sotto i pretori romani, almeno fino a quando ne abbiamo memoria. Sappiamo che ad Ortigia Verre, tenendo la propria corte, ne impediva l’accesso a chiunque, dimorando egli nel palazzo di lerone.
In conclusione Ortigia, da Dionigi in poi, a eccezione del breve periodo timoleonteo, se pure fu un luogo chiuso alla città, non può essa stessa considerarsi una città a parte, in quanto tutte le sue architetture, il suo stesso impianto rimandano al tessuto più grande della città, della quale essa rimaneva l’acropoli.
Il più antico quartiere greco sulla terraferma, l’Acradina, era anch’ esso cinto da mura proprie; quelle stesse che avrebbero sostenuto l’impeto ateniese e che, in qualche modo, dovevano ancora essere funzionali nel periodo dell’assedio romano, se è vero che le truppe di Marcello, dopo essere entrate in Siracusa, alquanto se ne ristettero prima di attaccare Acradina.
Questo quartiere era senz’altro il centro di Siracusa, la sede della grande agorà, più volte ingrandita fino al periodo romano. Era sede del tempio di Ierone II, del Timoleonteo, del ginnasio. Livio, narrando dell’assedio romano alla città espressamente menziona le “porte” di Acradina.
Per il cittadino di Siracusa la città abitabile finiva in Acradina, perpetuandosi in periodo romano, come già si è osservato, la disposizione di riservare Ortigia alle sole funzioni governative. Marcello a questo proposito emanò un editto, ancora in vigore ai tempi di Cicerone, espressamente vietante ai cittadini di Siracusa di prendere stanza in Ortigia. È chiaro che i centri sociali di Acradina, in particolare l’agorà, non erano relativi al “quartiere” ma alla città intera della quale esso rimaneva una parte.
La creazione infine di tutto un tessuto di edifici monumentali della Neapoli (teatro, stoà, anfiteatro, ara di Ierone, teatro lineare, Themenos di Apollo) tutti concentrati in una medesima zona, servita da strade, poi completate in epoca romana, significa la precisa volontà urbanistica di eleggere quella zona a sede di determinati edifici sociali riguardanti il culto e lo spettacolo.
Come si può ben notare anche in questo caso non ci troviamo di fronte a una considerazione atomistica della città ma, al contrario, alla chiara visione del suo problema urbanistico globale, che non creò mai una microambientazione di questi monumenti relativizzata al quartiere inteso come entità autonoma. Le proporzioni di questi edifici, prescindendo da ogni altra considerazione, sconsigliano questa tesi.
Detto questo converrà osservare infine che la creazione della grande cinta dionigiana, serrando insieme tutti i quartieri, diede anche “coscienza” dell’unico complesso urbanistico definitivamente seppellendo la visione e la concezione delle “cinque città”.
Quando nel 212 i romani conquistarono la città, Siracusa era già nella sua fase discendente, rispetto a quella che era stata al tempo di Dionigi, e per quanto la saggia politica di Ierone II l’avesse tenuta fuori dalle stragi della prima guerra punica, la generale devastazione della Sicilia, il globale impoverimento se, come abbiamo già detto, non colpirono la città, la portarono però a dipendere esclusivamente dalle sue alleanze. E questo non dovette essere estraneo al pensiero di Ierone se egli si dedicò a cercare una via d’intesa fra Roma e Cartagine, ben comprendendo che ormai solo dalla bipolarità del Mediterraneo poteva dipendere la libertà di Siracusa.
La visione dell’infeudamento totale a Roma, lo spauracchio di non avere più un proprio spazio politico ed economico, non deve essere stata estranea alla decisione di Geronimo di passare nel campo dei cartaginesi che a Siracusa avevano promesso la Sicilia, o almeno le sue macerie. Seguire un poco da presso le vicende dell’assedio romano a Siracusa è di qualche importanza; sia per conoscere le vicende della straordinaria e mitizzata partecipazione al conflitto di Archimede (sul quale tutti gli autori classici sono d’accordo; sostanzialmente ne parlano con gli stessi accenti Polibio, Livio, Plutarco), sia perché questo avvenimento segna il tramonto della più grande metropoli greca.
Narra Polibio: Epicide e Ippocrate, dopo esser si alienati i Romani, presero il governo di Siracusa; i Romani, giunta la notizia della fine del tiranno di Siracusa Geronimo, elessero comandante Appio Claudio e lo preposero alle forze di fanteria; Marco Claudio assunse il comando della flotta. Insieme i due capitani si accamparono poco lontano dalla città e decisero di attaccarla con la fanteria nella località di Esapili e con la flotta da Acradina presso il portico detto Scitico, lungo il fianco del quale, dalla parte del mare, si innalza il muro. I Romani prepararono i graticci, i dardi e gli altri mezzi necessari all’assedio, sperando che, data la loro superiorità numerica, avrebbero terminato i preparativi cinque giorni prima degli avversari. Essi però non avevano tenuto calcolo dell’abilità di Archimede e non avevano pensato che l’ingegno di un solo individuo in alcuni casi può valere più delle braccia di molti …… I Romani, allestiti questi mezzi, pensavano di dare l’assalto alle torri, ma Archimede, avendo preparato macchine per lanciare dardi a ogni distanza, mirando agli assalitori con le baliste e con catapulte che colpivano più lontano e sicuro, ferì molti soldati e diffuse grave scompiglio e disordine in tutto l’esercito; quando poi le macchine lanciavano troppo lontano, ricorreva ad altre meno potenti che colpissero alla distanza richiesta. Infine scoraggiò completamente i Romani, impedendo loro ogni iniziativa di accostamento finché Marco, trovandosi in difficoltà, fu costretto a tentare di avvicinarsi alla città nascostamente di notte. Quando i Romani furono entro il tiro dei dardi, Archimede architettò un’altra macchina contro i soldati imbarcati sulle navi: dalla parte interna del muro fece aprire frequenti feritoie dell’altezza di un uomo, ·larghe circa un palmo dalla parte esterna: presso di queste fece disporre arcieri e scorpioncini e colpendoli attraverso le feritoie metteva fuori combattimento i soldati navali. Così non soltanto rendeva incapaci di qualsiasi iniziativa i nemici sia lontani sia vicini, ma ne uccideva gran parte. Quando essi tentavano di sollevare le sambuche, ricorreva a macchine che aveva fatto preparare lungo il muro e che, di solito invisibili, al momento del bisogno si levavano minacciose al di sopra del muro e sporgevano per gran tratto con le corna fuori dai merli: queste potevano sollevare pietre del peso di dieci talenti e anche blocchi di piombo. Quando le sambuche si avvicinavano, facevano girare con una corda nella direzione richiesta l’estremità della macchina e mediante una molla scagliavano una pietra: ne seguiva che non soltanto la sambuca veniva infranta ma pure la nave che la trasportava e i marinai correvano estremo pericolo.
Archimede aveva allestito macchine anche contro gli assalitori che per mezzo di graticci si difendevano dalle frecce scagliate attraverso le feritoie del muro: alcuni difensori scagliavano pietre a distanza giusta perché i combattenti si ritirassero da prua; altri calavano una mano di ferro legata a una catena per mezzo della quale l’uomo addetto al governo del rostro, afferrata la prua, abbassava la parte inferiore della macchina verso l’interno del muro; in questo modo, sollevata la prua, faceva rizzare la nave sulla poppa, poi fissata la parte inferiore della macchina così che non si movesse, per mezzo di un congegno apposito staccava la mano e la catena. In seguito a ciò alcune navi ricadevano su un fianco, altre si rovesciavano, quasi tutte, lasciate cadere dall’alto, imbarcavano acqua e si riempivano di confusione. Marcello, messo in difficoltà dai mezzi escogitati da Archimede, e vedendo che i cittadini rendevano vano ogni suo tentativo e in più lo facevano oggetto di scherno, tuttavia scherzava sulla sua situazione, dicendo che Archimede attingeva acqua dal mare con le sue navi come fossero bicchieri e che le sambuche erano prese a schiaffi e cacciate via in malo modo dal banchetto. L’assedio per mare ebbe questo risultato.
Presa Siracusa il bottino fu enorme. Livio afferma che se si fosse presa Cartagine esso non sarebbe stato più consistente. Marcello, come era buona abitudine romana, “grattò” tutte le opere d’arte che gli fu possibile raccogliere: pitture, statue, fregi, lapidi, vasellame; enormi carichi presero la via di Roma che ne rimase abbagliata e che da queste ruberie ebbe il primo contatto con l’arte greca.
Cominciò allora nella metropoli siciliana quella irreversibile tendenza ad abbandonare la città per la campagna; la grande Siracusa a poco a poco cominciò a ridursi ai primitivi limiti di Ortigia e Acradina, né il governo romano dei primi due secoli fu tale da incoraggiare una inversione di tendenza. Pare anzi che la rapacità dei governatori romani, dei quali non doveva essere una eccezione Verre, completasse l’opera di rovina procurata dalle guerre.
A proposito di Verre, (73-71) per quanto attendibile possa essere la testimonianza di Cicerone, questi avrebbe rubato a Siracusa tutte le pitture che ornavano il tempio di Minerva raffiguranti le imprese del re Agatocle. In più rubò altresì dal tempio ventisette tavole nelle quali erano dipinte le immagini dei re e dei tiranni di Sicilia. Spogliò le porte di detto tempio artificiosamente lavorate, né più nobili dove erano incastrati molti preziosi e perfetti lavori d’avorio. Fece schiodare una bellissima faccia di Medusa anguicrinita e la prese. Schiodò tutte le bolle d’oro che molte e grandi erano; lasciando le porte non per ornamento, sì per tenere chiuso il tempio … Rubò dal pritaneo la statua di Saffo … stupenda e perfetta. Dal tempio di Esculapio tolse la statua di Peane, nobilissimo lavoro, sacra e religiosa, ammirata da tutti per la bellezza, riverita per la religione. Dal tempio di Bacco rubò la statua d’Aristeo, e dal tempio di Giove quella di Giove Urio, e dal detto tempio di Bacco una piccola testa che per la sua bellezza ciascuno andava a riguardare. ( Cicerone)
Dal 44 al 36 la guerra fra Sesto Pompeo e Ottaviano aveva coinvolto molte città siciliane fra le quali Siracusa, causando un grande spopolamento. Lo stesso Augusto, assunta la massima carica dello stato romano, provvederà nel 21 a.C. a ripopolare la città facendovi insediare dei veterani romani e le darà il rango giuridico di “colonia”. Secondo Strabone già a quei tempi gli abitanti di Siracusa erano tutti raccolti fra Acradina ed Ortigia.
Scrive Finley: Un curioso poema di Ausonio, Ordo urbium Nobilium, in cui sono catalogate le diciassette città più famose, cominciando da Roma, Costantinopoli, Cartagine e finendo con la città natale del poeta, Bordeaux, pone Catania e Siracusa rispettivamente al tredicesimo e quattordicesimo posto.
Ad ogni modo se l’intervento di Augusto per Siracusa fu volto a riparare i guasti della recente guerra, esso non fu eccezionale e non si discosta da quelli adottati in tutto l’impero, dato il suo incombente spopolamento.
I lavori urbanistici ed architettonici dei quali abbiamo notizia sono relativi ai primi tre secoli dopo Cristo e sono il foro, la sistemazione della piazza antistante all’ara di lerone, la sistemazione del teatro per i nuovi spettacoli gladiatori, la costruzione del grande anfiteatro, la realizzazione del complesso del ginnasio.
La città dovette ripopolarsi, almeno nel quartiere di Acradina, tanto da giustificare la costruzione nel primo secolo d.C. del complesso noto come il “ginnasio romano” nella zona dell’attuale via Elorina, di fronte alla caserma dell’aeronautica. Scrive Margaret Guido che trattasi di un teatro romano e non di un ginnasio … il monumento non ha mai ricevuto l’attenzione che gli è dovuta come un complesso raro, con molta probabilità appartenente a un unico periodo, senza alcun altro esempio che gli si avvicini.
L’intero complesso, del quale avanzano pochi resti, constava di un vasto spazio rettangolare, a nord e a sud concluso da propilei. Al centro era un piccolo tempio fungente da scena per un teatro di cui rimane parte della cavea e la cui orchestra oggi è allagata.
Nella zona dell’antica agorà greca si realizzò un foro, riutilizzante i vecchi resti, con l’aggiunta di qualche colonnato. All’incirca nello stesso periodo i romani sistemarono il piazzale antistante all’ara di lerone. La sistemazione creò una piazza monumentale chiusa, sui tre lati esterni, da un porticato sopraelevato e con un propileo di sedici colonne, avanzato al centro del lato più lungo. Nel mezzo di questa piazza alberata fu ricavata una piscina.
Del periodo dei Flavi sono i lavori di sistemazione del teatro greco che venne adattato al tipo di spettacolo più gradito al gusto romano, i ludi gladiatori; e fu davvero un bel salto di qualità, dalle possenti tragedie eschilee agli sgozzamenti di uomini fra ali di folla plaudente. La scena venne avanzata, si trasformarono le parodoi in passaggi coperti da volte. Nel terzo secolo la vecchia scena venne ripristinata, data la costruzione dell’anfiteatro più adatto a questo genere di spettacoli.
Del 111 secolo è la più grande realizzazione architettonica romana: l‘anfiteatro, le cui proporzioni (m 141 x 119) lo collocano fra i più grandi della romanità. I due ingressi vennero realizzati alle due estremità dell’asse maggiore, rispettivamente volti a nord e a sud. L’arena misura m 70 x 40. In centro vi è una piccola vasca rettangolare la cui funzione non è stata ben chiarita. L’arena serviva agli spettacoli gladiatori, per i ludi acquatici e per le corse dei carri, tutte rappresentazioni molto popolari che cavavano di mente ai romani di occuparsi di politica.
L’anfiteatro, realizzato a poca distanza dal teatro e dall’ara di lerone, veniva a occupare un posto urbanisticamente importante della Neapoli (che nel 111 secolo dobbiamo immaginare abitata) e vi si inseriva insieme a tutto un nuovo tessuto viario ed edilizio. Un intero quartiere ellenistico-romano, attraversato da una strada segnata da un arco di trionfo, vi confluiva. Il piazzale antistante al teatro faceva da punto di confluenza con un’altra arteria proveniente da mezzogiorno.
Dopo questo ultimo conato di grandezza che lascerà segni (l’anfiteatro) del tutto degni dei precedenti monumenti greci, le condizioni politiche, deteriorandosi, provocarono un nuovo e definitivo restringimento della città e il suo spopolamento. Nel 282 Siracusa verrà saccheggiata dai primi barbari; verrà poi la volta dei vandali e quindi dei goti. Ma ormai alla Siracusa classica era succeduta la città cristiana dei vasti cimiteri e delle prime chiese.
Elio Tocco