Genesi culturale dei castelli svevi
Proibiamo, d’ora innanzi, di erigere in località appartenenti al nostro demanio edifici dai quali possa essere impedita la difesa o la protezione delle medesime, ovvero il libero ingresso ed uscita. Nei predetti luoghi, in particolare, vietiamo che d’ora innanzi siano da privati cittadini edificate torri. Riteniamo infatti che a tutti i fedeli sudditi del nostro regno siano sufficienti per tutelarli le opere fatte da noi costruire e, ancora di più, la difesa della nostra protezione (Liber Augustalis, Melfi 1231).
Se l’ermeneutica delle rare architetture religiose di periodo svevo non presenta grandi difficoltà, essendo ormai acquisita (ed in specie dopo lo studio dei grandiosi avanzi del Murgo) l’influenza borgognona direttamente importata dall’ordine cistercense, di assai più difficile lettura e interpretazione sono i magnifici castelli svevi.
La genesi dell’architettura dei castelli svevi ha generato una lunga e mai completamente composta questione fra i vari studiosi che se ne sono occupati; una questione riguardante, la loro origine e l’analisi dei vari apporti culturali in loro affluenti.
Noi ci limiteremo a dare un cenno dell’intricata questione analizzando brevemente la consistenza degli apporti stilistici e cercando, in ultimo, di fornire un sufficiente prospetto sintetico; a questo quadro premetteremo un lineamento cronologico e una doppia introduzione a carattere propedeutico.
La cronologia e l’utilizzazione delle maestranze cistercensi
La cronologia dei castelli svevi è determinata, in modo autentico, da una lettera imperiale, data a Lodi il 17 novembre del 1239 e indirizzata a Riccardo da Lentini, fiduciario siciliano preposto alla costruzione dei castelli.
Il documento ci attesta che, in quella data, i due castelli di Lentini e di Siracusa sono già ultimati, anche se non è completata l’opera di munizionamento; similmente apprendiamo che il castello d’Augusta è in fase d’avanzata costruzione, mentre del castello di Catania si è già scelto il sito (morfologicamente molto diverso dall’attuale a causa delle grandi eruzioni del secolo XVII che sconvolsero il luogo) e si attende l’ordine per porne in opera la prima pietra.
Da un altro documento sappiamo che è del 1240 il termine dei lavori di quello che può essere ritenuto il capolavoro di quest’architettura: il Castel del Monte d’Andria, mentre è del 1246 il castello di Prato, il più tardo fra i castelli svevi.
Entro questi anni (1235-40) furono impostati i castelli di Milazzo e quelli ormai scomparsi di Messina e di Caltagirone.
A questo punto si può già formulare un’osservazione di carattere generale che può servire da guida per le ulteriori osservazioni.
I castelli svevi, pur con qualche oscillazione cronologica, furono costruiti simultaneamente, voluti da precise esigenze militari e strategiche dell’impero che imponevano tanto la difesa contro nemici esterni quanto, e forse in misura maggiore, la garanzia di fedeltà dei domini meridionali.
Viene in questo modo ad escludersi l’ipotesi di uno spostamento di maestranze da un luogo all’altro della Sicilia per attendere alla costruzione delle fortezze; quindi la loro omogeneità stilistica non può essere lì ricercata, per potere realmente trovare il punto focale di tale unitarietà di linguaggio occorrerà analizzare altri dati.
In fondo basata su questa considerazione è l’ipotesi risolutoria che riscontra il momento aurorale di queste architetture nelle comuni direttive dell’imperatore, divenuto, per questa via, l’architetto per eccellenza.
Ora non è da escludere che Federico II abbia di persona controllato i progetti né che li abbia discussi; ma crediamo sia da escludere che vi abbia dato la propria impronta dirigendo o addirittura formulando i progetti stessi; è invece probabile, ripetiamo, che Federico abbia voluto dare dei suggerimenti, che abbia potuto fornire qualche spunto, ma che tutta l’architettura militare del suo periodo debba ascriversi all’attività intellettuale di Federico ci sembra chiaramente errato.
Ci pare che quest’impostazione, che potremmo definire pan-federiciana, si possa ascrivere a quel «tipo» di storiografia che, dopo Hegel, rifiutò l’apporto della ragione ordinatrice, per ripiegare su motivazioni e valori metastorici che potessero fornire alla «storia» la spina dorsale portante venuta a mancare.
Si può pensare a queste «storie», come a storie della crisi, uno dei cui aspetti fu la mitizzazione o la tipizzazione; scrive a questo proposito Raffaello Franchini che l’apologia del leggendario, [come storiografia della] crisi, è dovuta proprio al divorzio fra il pensiero filosofico ed il pensiero storico.
In conclusione ci pare che proprio da queste storie della mitizzazione, magistralmente rappresentate dal Kantorowitz, sia scaturito l’atteggiamento del voler vedere in Federico la matrice d’ogni attività intellettuale avutasi durante il suo impero. Ipotesi questa, concludiamo, da scartare totalmente.
Logica ermeneutica
Un punto propedeutico ad ogni altra discussione, e che riguarda il metodo di lettura delle architetture federiciane, sta nella considerazione che l’arte della poliorcetica (dalla quale dipende la funzionalità e la struttura della fortezza) è rimasta immutata fino all’avvento delle artiglierie, dopo di che le architetture militari dovettero adeguarsi alle nuove realtà belliche, trasformandosi.
Da questo punto di vista, si potrebbe dividere la storia delle fortificazioni militari in due grandi periodi, dei quali uno precede la messa in funzione delle artiglierie e l’altro lo segue. Fino al secolo XIV, la tecnica della costruzione dei castelli non mutò fondamentalmente dovendo la fortezza affrontare sempre le stesse armi. E del resto anche dopo l’introduzione delle artiglierie, subito dopo un primo momento, quando bastò arrotondare gli spigoli, ispessire i muri e limitarne l’alzato, dal secolo XVI a tutto il secolo XVII, si può affermare che nuovamente le fortezze si siano modellate tutte secondo schemi comuni ripetuti continuamente.
Di tutta l’antichità il modello più perfetto di fortezza resta il castrum romano, tutto poderosamente serrato fra le sue mura contraffortate continuamente da torrioni semicilindrici che n’assicuravano la perfetta difesa.
E potremmo spingerci più indietro, affermando che mai fu costruita fortezza più completa e adatta alla bisogna militare dell’antichità del castello Eurialo di Siracusa, entro le cui mura si spengono i ricordi degli antichi tiranni siracusani.
Fino al 1300 non furono costruite nuove armi (la cui novità, vogliamo dire, sarà tale da rivoluzionare l’arte militare), né furono messe a punto macchine d’assedio più poderose di quelle dell’antichità classica.
Le uniche varianti di questo quadro militare furono le condizioni demografiche del tempo, la natura dei terreni, la qualità dei materiali edili impiegati. Altro elemento di cambiamento sarà nella «mentalità» che presiede alla costruzione e nella sua funzione strategica.
Tutto il resto non è che rielaborazione di temi e di bisogni ruotanti intorno a concetti architettonici comuni a tutta l’antichità ed il Medioevo. La difesa della fortezza era costituita da alte cortine murate, il cui spessore doveva scoraggiare l’azione delle macchine atte a battere le mura.
La struttura muraria era compatta e chiusa, sì da non offrire al nemico alcun’altra entrata che non fosse quella protetta da opere fortificate avanzate e da ponti levatoi. La sommità della cortina si concludeva nelle merlature, che davano la possibilità ai difensori di colpire il nemico e di ripararsi dai suoi colpi. Vi era sempre un camminamento di ronda, percorrente tutta la sommità piatta della cortina muraria, atta al veloce spostamento delle truppe, al coperto della merlatura, da un punto all’altro della costruzione.
La cortina era interrotta dalle torri costruite secondo svariati modelli, sempre con funzione eminentemente strategica; aggettanti dalla massa muraria, a volte per metà del loro spessore, a volte per la quasi totalità, garantivano una più efficace difesa dei muri perimetrali, impedendo l’avvicinarsi delle macchine nemiche.
La torre è la chiave della struttura difensiva del castello medievale, la garanzia della forza delle cortine murate, altrimenti presentatisi piatte e sguarnite all’impeto nemico. Ove la cortina era troppo sviluppata in lunghezza le torri, poste ordinariamente agli spigoli del castello, erano costruite anche nelle zone mediane, e tanto più si ripetevano, rendendo forte la costruzione, tanto più il castello veniva a somigliare al castrum romano che, per tale via, rimane un esempio insuperato di architettura militare.
Al centro del castello, ultima difesa e residenza del castellano, era il maschio fortificato, isolato dalla prima cinta muraria, eminente sul resto delle fabbriche, in modo da permettere l’ultima possibilità della difesa, e spesso avente forme di torrione massiccio.
Tutta quest’argomentazione è per affermare che molto spesso occorre fare riferimento a questa logica ermeneutica per spiegarsi certe somiglianze fra i castelli svevi e quelli dei crociati, o degli omyyadi ecc.
Ci pare di avere sia pure brevemente dimostrato che tutte le costruzioni militari medievali «dovevano» avere molti punti in comune; e precisamente tutti quelli imposti dall’uguale destinazione e dalla medesima azione difensiva contro gli stessi metodi d’assedio.
Sarà appena il caso di rilevare che questi motivi, che potremmo assimilare a una costante, si compongono con le variabili delle quali già abbiamo detto qualcosa (natura del terreno, quantità d’uomini disponibili, qualità dei materiali, condizioni finanziarie del costruttore, potenza dello stato ecc.), e sarà soltanto quando le variazioni verranno a combaciare (castelli costruiti in territorio pianeggiante in periodo di ripresa dello stato, costruiti con un certo margine finanziario) che anche le costruzioni presenteranno affinità sempre più marcate.
L’influenza delle maestranze cistercensi
L’influenza esercitata dalle maestranze educate nei cantieri delle abbazie cistercensi sui moduli architettonici dei grandi castelli svevi è basata su due ordini di considerazioni, il primo di carattere generale, il secondo specificatamente riguardante il castello Maniace di Siracusa.
Per quello che riguarda il primo punto Stefano Bottari ipotizza un genere di influenza travalicante il casuale apporto di circoscritte maestranze, per ritrovare una rispondenza fra l’assetto volumetrico degli interni abbaziali e quello dei castelli; un vero trasferimento di termini linguistici, quindi più che un semplice apporto culturale.
Osserva a questo proposito il Bottari che alla chiesa del Murgo doveva certamente essere annesso, se il piano prefissato fosse stato realizzato, uno stabilimento monastico. Proprio nei piani degli stabilimenti monastici cistercensi, del tipo, ad esempio, di quello di Fontaney o di Norilac, è possibile individuare parti che richiamano molto da vicino la planimetria dei nostri castelli. Comunque è ben certo che l’effetto delle sale terrene dei castelli di Siracusa ed Augusta… non doveva essere gran che diverso dalle sale capitolari, dai refettori, dai dormitori di quei famosi monasteri.
Il secondo punto (le influenze delle maestranze cistercensi lavoranti alla basilica del Murgo sul castello Maniace di Siracusa) è stato svolto in modo vorremmo dire «definitivo» da Giuseppe Agnello.
Già la cronologia delle due opere conforta quest’ipotesi: infatti fra il 1225, anno di fondazione della basilica, e il 1239, anno di completamento del castel Maniace, è compatibile pensare che le maestranze del cantiere cistercense, dopo aver abbandonato la realizzazione dell’opera muraria esterna raggiungente i tre metri d’alzato, furono impiegate nella costruzione del gran castello.
Quest’ipotesi diventa una certezza dopo le osservazioni tecniche dell’Agnello (spessore dei muri, finitezza dell’opera muraria ecc.).
Raccogliendo le fila di queste osservazioni, la cui autorevole paternità è di Haseloff ed Eluart (ma che solo dopo lo studio dell’Agnello sulla basilica del Murgo raggiunge certezza probatoria) si verrebbe a eliminare la figura dell’imperatore-architetto, sostituita dall’anonima influenza culturale delle maestranze dei cantieri cistercensi.
Più sopra avevamo detto però che la contemporaneità di costruzione dei castelli svevi e, aggiungiamo, la stessa fretta con la quale le opere furono realizzate, vengono a limitare anche quest’ipotesi ermeneutica; non è pensabile infatti a una lenta penetrazione dei «modi» borgognoni in costruzioni realizzate in tutta fretta e in ogni parte dell’Italia; piuttosto siamo portati a limitare quest’influenza ad apporti tecnici (limitatamente al castello Maniace di Siracusa) ricercando l’unità di gusto e di stile dei castelli svevi in altri momenti ed in primo luogo negli stessi influssi borgognoni, ma mediati attraverso il Levante, dove già la simbiosi fra architettura monastica e necessità militari aveva prodotto i grandi castelli dei crociati in Terrasanta, che Federico doveva ben conoscere e con lui la sua corte, i suoi funzionari, i suoi architetti.
L’influenza delle architetture levantine
Le vicende politiche che portarono l’imperatore in Terrasanta visualizzarono, agli occhi di Federico e dei suoi funzionari, i grandi castelli che i crociati avevano realizzato in Siria e Palestina a pegno di stabilità della propria avventura militare.
Accanto a questi castelli certamente Federico ebbe modo di osservare le fortezze arabe, e in specie considerando il fatto che la «crociata» federiciana fu amichevole verso l’elemento islamico, se n’evince che l’imperatore ebbe modo di osservare in tutta tranquillità queste costruzioni, in una delle quali fu ospitato per breve tempo.
Erano, quelli arabi, grandi castelli, limpidi e cristallini nei nitidi apparati murari, razionali e igienici nelle opere di condotta e scarico dell’acqua, caratterizzati dalle tipiche torri cilindriche.
Queste costruzioni erano la sintesi di svariati influssi culturali, nei quali gli apporti bizantino- persiani riconducevano agli archetipi rappresentati dai castra romani.
Avremo, in conclusione, una doppia serie di influenze culturali, direttamente assunte in Terrasanta durante la spedizione del 1227, venuta a seguito della fallita quinta crociata di Leopoldo d’Austria (1217-1221).
Ma sarebbero questi due punti le vie maestre di confluenza e di simbiosi di altri apporti culturali, convoglianti tutta l’esperienza delle architetture militari dell’antichità. Per le architetture degli stati cristiani di Terrasanta preponderante è la corrente cistercense, importata di peso dalla Francia e appena scalfita dalle variazioni imposte dalla natura dei luoghi ospitanti i castelli.
L’Agnello, che in questo senso è andato più in profondità degli altri studiosi, articola la propria dimostrazione (l’influsso cistercense che dalle costruzioni abbaziali si sarebbe travasato nelle architetture militari) principalmente su di un esempio, a ragione ritenuto come il capo d’opera di quest’arte: il castello detto dei Cavalieri. Ed in effetti sono impressionanti le affinità fra le grandi volte costolonate concludenti gli ambienti superstiti del castello, così tipicamente «sveve», e le volte residue del periodo federiciano di Sicilia. Si prenda come punto di riferimento la volta di quel residuo ambiente dugentesco incastonato entro le fabbriche del palazzo arcivescovile di Siracusa, o quelle delle sale del piano terreno del castello Ursino. E a loro volta queste formule architettoniche furono mutuate dall’esperienza delle coperture delle sale capitolari, refettori ecc. delle abbazie cistercensi.
L’altro ordine di influssi, si è già detto, deriva direttamente dai grandi castelli omyyadi, nei quali erano confluite, risolvendosi, la tradizione romano – bizantina e quella persiana.
L’ipotesi di un’influenza araba «locale»
È del Samonà l’acuta ipotesi che le influenze arabo – omyyadi potessero preesistere al viaggio di Federico in Terrasanta, essendo già presenti in Sicilia.
Gli arabi siciliani, in effetti, durante il corso del loro dominio nell’isola, s’incontrarono con la cultura classico-bizantina e non è improbabile che n’abbiano tratto soluzioni architettoniche applicate ai castelli.
Si prospetta così l’ipotesi suggestiva di un’influenza «locale» entro il quadro complesso della genesi delle architetture militari federiciane. Purtroppo si tratta di pura ipotesi, non provata dai necessari supporti architettonici, data la totale scomparsa dei castelli siciliani di periodo arabo; ma il filo della dimostrazione, smarrito per questa via, può essere riannodato da un’altra possibilità dimostrativa.
Le architetture militari sveve di Sicilia non sono del tutto eguali a quelle coeve continentali, ma ne differiscono principalmente per il senso plastico – spaziale: e fino a questo punto nulla di nuovo.
Già il Bottari aveva notato come sia principalmente nell’inserzione dei doviziosi portali in Italia che il senso spaziale presente in Sicilia cambia direzione. In Sicilia nessun aggetto interrompe la lineare continuità delle opere murarie, la cui cristallina consistenza è scandita ininterrottamente lungo tutte le facciate dei castelli.
A Prato e ad Andria, invece, i continui rincassi, gli aggetti murari, producenti continue cesure di ombre nella continuità della luce, creano un diverso assetto spaziale (più compiutamente «gotico»), che presuppone una diversa sensibilità architettonica, che è quanto dire un diverso orientamento.
A questo punto si può ricucire quest’osservazione con il primo discorso, scaturito dall’intuizione del Samonà. Se, cioè, l’influenza dei castelli omyyadi fosse stata attinta «unitariamente» in Terrasanta, essa avrebbe operato sulle architetture sveve e non si noterebbe quel diverso orientamento fra architettura siciliana e architettura italiana.
Ed allora occorrerà cercare in Sicilia le motivazioni di questa «diversità», dati e presupposti i punti di cui ai precedenti paragrafi e che operarono su tutta quanta l’architettura federiciana. E questa «diversità» non può che essere costituita dalla tradizione locale che in qualche modo trovò modo di riversarsi nel nuovo corso architettonico.
Vi fu in Sicilia, noi riteniamo, la presenza di una tradizione araba, anche nel campo dell’architettura militare, e in questa tradizione operavano «ricordi» classico-bizantini e tutti questi elementi, fusi insieme in un’organica presenza, si riversarono nel nuovo corso dell’architettura militare sveva, onde quel senso chiuso e bloccato degli apparati murari che altrove (in Italia) non è presente e che avrebbe invece dovuto esserlo se questa fonte di influsso fosse stata attinta «unitariamente» in Palestina.
La classicità dei castelli svevi
L’ultimo apporto culturale che deve essere considerato, ma che è quasi un semplice inserto di recupero e non possiede assolutamente la rilevanza degli altri aspetti, è il classicismo che gli architetti di Federico II intesero trasferire nelle nuove costruzioni.
Non si trattò di un vero e proprio recupero a largo respiro, sebbene di inserzioni di «pezzi» di sapore squisitamente classico nelle costruzioni, tuttavia denotanti un preciso orientamento e un gusto che non aveva perso il sapore delle architetture classiche. Quest’inserzione classica si ritrova, in forma più compiuta e, vorremmo dire, propriamente architettonica nei castelli italiani mentre in quelli siciliani (ma si potrebbe dire unicamente nel castello Maniace) questo gusto diventa un puro riferimento estrinseco.
Il gusto classico si rivela pienamente nel magnifico portale di Castel del Monte, scandito dal caratteristico timpano classico non indegno dei suoi antichi modelli. A Siracusa saranno invece i due magnifici arieti di bronzo, di età ellenistica, restituiti in quel periodo dal gran naufragio della città classica, posti ai due lati del portale principale, a costituire il riferimento alla classicità entro il quadro dell’insieme.
Conclusioni
Sembrerebbe che, in sede di conclusioni, si possa affermare che l’architettura federiciana dei castelli sia una specie di summa dell’architettura militare del Duecento dove coesistono: una doppia influenza cistercense (a carattere locale e desunta dai castelli crociati), una doppia influenza arabo – omyyade (anch’essa locale e palestinese) con i suoi complessi agganci classico- persiano- bizantini, insieme a ritornanti e sporadici spunti classico-esornativi (portali, arieti bronzei).
Ma crediamo che, in fondo, proprio in sede di conclusione il metodo analitico trovi il suo limite insormontabile, ché dopo aver sezionato quella cultura, trovandole tutti i possibili agganci e tutte le contaminazioni stilistiche, ne viene a mancare la motivazione, l’intrinseca razionalità.
In effetti ci pare che su tutto il vasto concime culturale prospettato, la cultura sveva abbia saputo agire in modo originale, raggiungendo, in specie nel suo capo d’opera di Andria, una mirabile e validissima sintesi, entro la quale i riferimenti culturali e le radici storiche sono stati riassorbiti dando vita a una cultura architettonica compiutamente «nuova» e straordinariamente viva.
Se è vero che si vuole superare l’idea dell’imperatore architetto, è anche vero che l’analisi fine a se stessa dei vari apporti culturali non ci fornisce una sufficiente chiave interpretativa delle architetture imperiali, le cui motivazioni, per questa via, ci rimarrebbero sconosciute.
Ed intanto sarà utile fare riferimento a quel cenno di logica ermeneutica già fornito, entro il quale i vari apporti culturali assumono una diversa funzione di logica necessità, liberando la ricerca dal grave errore di rendere gli architetti imperiali simili ad archeologi che poi realizzarono palinsesti militari, privi d’ogni organica vita autonoma.
In realtà ci pare che in quel miracoloso ponte fra Oriente ed Occidente dove già era stata la splendida cultura normanna, si viva un’ultima grande stagione, parlata in linguaggio militare così come le esigenze storiche imponevano.
In quell’ideale battigia che fu la Sicilia s’incontrarono e si fecondarono la nuova cultura occidentale cistercense con la cultura araba fondendosi in un ultimo mirabile equilibrio, nel quale i castelli federiciani stanno enigmaticamente fra Oriente ed Occidente, chiusi nei loro possenti muri gli spunti del passato e gli stimoli di presenti culture.
Finita l’epoca sveva, interrotto per sempre quel «ponte», nulla di tutto ciò fu più possibile; l’ultimo atto di questo fecondissimo incontro, ininterrottamente durato dal tempo del conte Ruggero, furono i castelli svevi, sospesi fra l’Occidente crociato e l’Islam in un ultimo miracoloso e brevissimo equilibrio.
Elio Tocco