I fatti del 1837
Il complesso dei drammatici fatti che caratterizzarono il 1837 fu di fondamentale importanza, anche se in negativo, per l’economia e la vitalità della città di Siracusa. Tanto da consigliarne l’annotazione in un quadro in cui si privilegia la storia urbanistica di Siracusa.
Tre furono i fattori che, annodandosi, spezzarono la positività del periodo precedente, che potremmo definire inglese :
a-) Le morti che si ebbero per la pandemia che falcidiarono la popolazione della città.
b-) La rivolta popolare che, causando altri morti, imbarbarì la vita della città, mettendo in scena un furente conflitto di classe del tutto privo di strategia politica.
c-) La repressione borbonica che da un lato priverà la città della sua vitale funzione di capoluogo della vastissima provincia, con il conseguente spostamento di un nucleo, di vitale importanza al fine di una futura ripresa, di professionisti ed impiegati fuori da Siracusa, praticamente falcidiando il ceto medio.
La somma di questi fattori è chiaro che abbia fermato lo sviluppo della città, impoverita, spopolata, piena di odio e di vittime innocenti, privata del suo ruolo economico- amministrativo.Fu allora che Siracusa toccò il vertice negativo della propria storia.
Data la straordinaria importanza di quell’anno, crediamo occorra ripercorrerne gli eventi con maggiore dettaglio
La pandemia
Il colera ha rappresentato, dopo la peste, l’esempio più classico di pandemia. Dilagato in India, sulle rive del Gange, all’inizio del XIX secolo, nel 1829 il colera raggiunse Mosca ed in pochi anni l’Europa intera.
In Italia arrivò nel 1835 e con alterne vicende vi rimase sino al 1837, ma colpì con periodiche ondate anche nel 1854-55, 1865-67, nel 1884-87 e nel 1910-11.
Nel suo saggio sulla Sicilia del 1837, il Sansone parla di una Siracusa tranquilla e modesta , e ad un tratto, in luglio, la città è in rivolta, in preda al furore e alla violenza. Sono le astuzie dei liberali a provocarla, o non è invece la morte che comincia a scorrere per le strade?
Il colera si affacciò a mezzo giugno dice il Sansone, dopo una moria di bambini. Dopo, non c’è più riparo: e alla morte e al furore. Il colera giunge in Sicilia nell’estate del 1837. Pur non essendo più micidiale delle altre malattie all’epoca conosciute, come il vaiolo, il morbillo, il tifo, la tubercolosi e la malaria, tuttavia il colera colpisce l’immaginazione popolare più di qualsiasi altro morbo, a causa probabilmente della sua natura misteriosa e della sua sintomatologia impressionante, oltre che peri il suo decorso rapido e violento.
Ma negli anni Trenta dell’Ottocento i medici sono del tutto impreparati a combatterlo. Possono solo constatarne i sintomi, non sanno quale terapia. adottare, sconoscono come esso penetri nell’organismo e quali siano le vie attraverso le quali si propaghi. Intuiscono, al massimo, che la sua diffusione è favorita dalle carenze igieniche, dalla scarsa alimentazione e dalle abitazioni malsane, tutte condizioni, in quei tempi, prevalenti un po’ dovunque.
I consigli dei medici, così come i provvedimenti delle autorità, nulla possono, però, contro il panico che accompagna il diffondersi del colera. Il suo apparire sconvolge il corso della vita individuale e collettiva, turba l’assetto sociale e inceppa il funzionamento delle istituzioni e delle strutture sanitarie pubbliche, mettendone impietosamente a nudo insufficienze e carenze.
E come ogni evento che supera i confini della comprensione, esso innesca sia a livello individuale che collettivo, una serie di azioni e reazioni umane del tutto irrazionali e nevrotiche determinate certamente dalla paura, ma che sono anche frutto dell’ignoranza, del pregiudizio e della superstizione. Affiorarono, così, sia una ostilità aperta contro i rappresentanti dell’ordine costituito (magistrati, sindaci, impiegati pubblici, gendarmi, sacerdoti, esattori delle imposte, ecc.), sia il rifiuto degli ospedali e dell’assistenza sanitaria in genere, e si affermò anche una mancanza di fiducia nei medici e nelle medicine, con una profonda diffidenza verso tutte le figure che si pongono da sempre ai margini dell’ordinaria convivenza civile (mendicanti, vagabondi, venditori ambulanti, forestieri, ecc.); si sviluppò anche un profondo odio dei popolani nei confronti dei signori, cioè dei benestanti e dei nobili.
Paura dell’ospedale, dunque, sentito come degradante luogo di morte e di emarginazione, dove solo i miserabili, e solo in extremis, si rassegnavano a essere condotti. Per questi motivi, ma anche per il persistere di antiche credenze, la gente, il popolino, preferisce curarsi a modo suo.
Nell’estate del 1837 in molti centri della Sicilia, si accendono mucchi di paglia nelle strade e si tengono spicchi di aglio sotto il naso, nella convinzione che il fumo dell’una e l’odore dell’altro riescano a tenere lontani i germi del colera. Al primo accenno di diarrea, sintomo col quale si annuncia la malattia, si fa poi largo uso di olio di oliva e succo di limone, cui seguono decotti e infusi delle erbe più strane.
Ma non sono soltanto gli uomini i destinatari di malattie e di morte. Anche gli animali pagano un largo tributo alla mortalità epidemica, rendendo così ancora più vulnerabile una società già esposta a carestie, pestilenze e cataclismi naturali. Il colera del 1837 sarà infatti preceduto da gravi manifestazioni di epizootica in varie parti della Sicilia
Nell’inverno 1834-35, proprio dalle campagne di Canicattini si propagherà nel siracusano un’ epidemia epizootica che colpirà soprattutto il bestiame da macello, assottigliandone il già esiguo numero di capi. Questo il quadro realistico che di Siracusa, a metà luglio di quell’anno, ci ha lasciato il Bufardeci:
Per le strade non si osservano che bagagli, casse, vetture, lettighe, e poiché i mezzi di trasporto non bastavano, così vedevansi anco le persone agiate gettarsi sulle spalle i fardelli e correre per le campagne, e con essi, madri coi bambini al petto, vecchi curvi dall’età trascinarsi a stento, infine uomini e donne che non avevano mai abbandonate le domestiche mura, presi di spavento partivano pallidi e con le lagrime agli occhi, alla vettura, e si contentavano di un pagliaio, di una stalla, di una tettoia, di una grotta, senza curarsi né delle privazioni, né dei luoghi paludosi in quei giorni di canicola
Le violenze.
Inevitabile corollario di questo stato d’animo è l’insorgere e il diffondersi di voci, dicerie, sospetti vaghi ma minacciosi. Si comincia a mormorare di complotti, si sussurra di sette misteriose. Si dice che a provocare il colera siano sostanze venefiche sparse nell’aria, nell’acqua e nei cibi da misteriosi agenti. Poi si parla apertamente di colera-veleno fatto diffondere dal governo come misura estrema messa deliberatamente in atto per ridurre le “bocche da sfamare”, il cui numero è cresciuto troppo rispetto ai mezzi di sussistenza disponibili.
Nell’estate del 1837 , soprattutto in Sicilia, questa voce trova largo credito grazie a due fattori concomitanti: il diffuso sentimento antiborbonico, che costituisce terreno propizio ad accogliere qualunque ipotesi, anche la più fantasiosa ed incredibile, purché idonea a mettere in cattiva luce l’odiato regime; e la conferma che tale voce riceve dai circoli liberali che l’avallano, pensando di provocare in tal modo una insurrezione popolare capace di abbattere la tirannia borbonica, ma che, purtroppo servirà innanzi tutto a scatenare il risentimento sociale a lungo represso.
Tra il 18 luglio e il 6 agosto, mentre l’epidemia dilaga nei quartieri popolari e buona parte degli abitanti è fuggita, Siracusa è praticamente in mano ad una massa eterogenea di rivoltosi che, in prede all’ ossessione del colera-veleno e all’ esaltazione religiosa, perquisisce abitazioni e uffici, sequestra barattoli, fiaschi e boccettine sospette, impreca, minaccia, percorre tumultuosa le strade, fa suonare le campane e invoca Santa Lucia. Si scatena così la caccia ai presunti avvelenatori, che ben presto provoca le prime vittime.
Vengono trucidati l’intendente Vaccaro, l’ispettore Li Greci e suo figlio che era “percettore” delle imposte, il commissario Vico, nonché innocui viandanti e forestieri, incorsi casualmente nella cieca furia popolare.
Altri, come il “cosmorama” Francesco Giuseppe Schweitzer e la di lui giovane e bella moglie Maria Lepyck, a stento in un primo tempo vengono sottratti al linciaggio e rinchiusi in carcere (saranno poi massacrati, insieme ad altri infelici, il 5 agosto al piano del Duomo), mentre si svolge l’incredibile parodia dell’istruttoria pubblica e degli esami chimici, durante i quali salterà fuori, in circostanze mai del tutto chiarite, una piccola quantità di arsenico, ritrovata, si dice, tra gli oggetti sequestrati in casa del defunto intendente Vaccaro. (De Benedictis)
Più o meno negli stessi giorni, a Floridia, dove hanno cercato rifugio, vengono uccisi il presidente della Gran Corte criminale Giuseppe Ricciardi, il segretario della procura Gaetano Pandolfo e il maestro di musica Brida.
Nel vicino centro del siracusano disordini e violenze culminano il 20 luglio nell’eccidio di nove persone, dapprima incarcerate a furor di popolo perché sospettate di nascondere veleni e poi fucilate una ad una nel timore che i giudici si potessero mostrare indulgenti con loro.
Oltre che a Siracusa e Floridia, rivolte sanguinose avvengono pure ad Avola e Sortino, mentre i tumulti per fortuna incruenti, si estendono a Modica, Ragusa, Comiso, Scicli, Spaccaforno (Ispica), Santa Croce, Chiaramonte, Lentini, Scordia, Solarino, Palazzolo, Melilli, Rosolini, Pozzallo, Augusta, Monterosso Almo e Vizzini.
Noto, che invece anela da tempo a diventare capoluogo della provincia, ostenta una interessata calma, ciò le consentirà, di lì a poco di realizzare la sua aspirazione.
In quasi tutti i centri della provincia s’instaura un clima di terrore, di fanatismo e di violenza, alimentato di volta in volta da motivi di rivalsa sociale, vendette personale, odio anti – borbonico, protesta fiscale e paura degli “untori”, a determinare il quale contribuisce in modo rilevante il delirante “manifesto dei veleni” del 21 luglio, sottoscritto con riluttanza dal barone Pancali, sindaco di Siracusa e unica autorità funzionante in quelle giornate di follia collettiva, ma materialmente redatto dall’avvocato Mario Adorno, noto esponente liberale siracusano, postosi a capo degli insorti perché fermamente convinto che il colera sia causato da sostanze tossiche propinate dai membri di una “setta infernale” nemica dei popoli e dei governi, convincimento che lo porterà più tardi a rifiutare l’idea della fuga all’approssimarsi del corpo di spedizione del ministro di polizia Del Carretto, e quindi a essere una delle prime teste a cadere, insieme a quella del figlio Carmelo, nell’inevitabile feroce repressione ordinata da Ferdinando II.
La repressione
Scritto in stile ampolloso e contorto, stampato in migliaia di copie distribuite in tutti centri dell’Isola, in varie regioni d’Italia e persino all’estero, il manifesto di Adorno firmato dal Barone Pancali, rappresenta, per così dire, la summa delle farneticazioni dominanti il pensiero anche di persone istruite e di ceto elevato, ormai prigioniere dell’idea fissa del colera-veleno.
E malgrado ciò o, forse, proprio per questo, esso trova quasi dappertutto lettori e ascoltatori che lo considerano subito poco meno che vangelo, al punto che si fanno svolgere accurate ricerche del fantomatico Bainard, citato nel manifesto come il propinatore delle sostanze venefiche, e si offre un premio di mille ducati a chi lo catturerà.
A Catania, per esempio, il manifesto dell’Adorno fu come la scintilla che produce un grande incendio, afferma il Bufardeci., che continua affermando che
Quei liberali colsero questa congiuntura per muovere il popolo a insorgere, e il concetto del colera-veleno fu quasi generalmente accettato in quel paese tanto rinomato per sapienza e per dottrina .
La furia devastatrice, suscitata dal manifesto dell’Adorno, connota, comunque, un tono generale della cultura e della civiltà diffusa della città; tono civile e culturale che sono il sostrato stesso di ogni economia, di ogni imprenditorialità, di ogni possibile spirito innovativo.
Ma torniamo ai nostri fatti: Scrive il Privitera che
Quel che maggiormente irritò o diè da pensare al re Ferdinando ed alla Corte, fu il manifesto di Adorno, e quindi i proclami dell’insorta Catania, preceduti dal moto di Messina. Si vide già dichiarato lo slancio e la scossa della rivoluzione; e fu deciso di soffocarla..con la repressione e con il terrore
A tanta bisogna fu chiamato il Marchese Del Carretto. Le condanne a morte pronunciate furono 180; ma questo bagno di sangue, se valse momentaneamente a riportare l’ordine, contribuì a scavare ancora più il fossato che divideva i Siciliani dai Borboni. In una città già colpita dal colera, dalle violenze popolari, e dalla repressione, le misure prese dal governo ne prostrarono totalmente l’economia.
Grande fu la mestizia, grande non meno la miseria della nostra Siracusa che si vide spogliata di tutti gli Uffici, dei Tribunali, di molte famiglie che, per necessità, altrove portar si dovettero. Anche il Vescovato che andava fino a Caltagirone, fu ridotto ad uno scheletro Priva allora la città di commerci, d’industrie, di turismo.tutto cadde in abbandono tutto miseria, anche le poche risorse dei campi venuti meno…….Pure i monumenti abbandonati al punto d’essere sorto un mulino nella platea del Teatro Greco, un orto nell’area dell’Anfiteatro Romano, delle mandre nelle Latomie, delle stalle tetide nei Sepolcreti e dei lavatoi nel fonte Aretusa, ove portavasi gli asini a dissetare. ( G. Broggi)
Questo quadro di grande e complessivo arretramento socio- economico, del tutto logico viste le premesse poste nei precedenti paragrafi, viene confermato da tutti gli storici ed i cronisti. Significativa ci appare una testimonianza, dallo stesso Broggi ( 1937), autore del brano su riportato, coeva ai fatti di cui si parla.
Molti anni or sono, con un vecchio novantenne conversando, vissuto in quell’infausto periodo, lacrimando egli dicevami “ Ancor Ricordo, come se oggi fosse, quei tristi tempi:solitudine ovunque, quasi al buio tutte le vie, rare volte spazzate, e piene di luride acque e di infossature. AI tramonto del sole coloro che ritornavano dai campi solovedevansi tutti affranti, un mansueto asinello tirandosi, . addietro, che parte facea della famiglia tutta lurida e cenciosa, nello stesso tetro tugurio intanto, ed emaciate delle lunghe e pesanti fatiche dei campi a far ritorno, in città si affrettavano,poiché ai rintocchi dei sacri bronzi annunzianti l’Ave Maria chiudevansi le porte militari d’ingresso all’abitato. E solo la Chiesa era., loro sollievo, ove portavansi a passare delle ore fra orazioni, prediche e benedizioni, confortati dalla speranza. di una vita migliore. Ritornavano poscia ‘alle loro casette fetide ed affumicate, consumando un po’ di pan nero, quasi sempre ammuffito, e rare volte una modesta. minestra di legumi.
Il Parlato riprende ed amplifica questo quadro, scrivendo:
il danno si accrebbe e le ingiustizie più dispettose e più torte pesarono sulla città reietta; basti il dire che, non essendo più capoluogo, si ritenne sempre tale per i dazi e per le tasse; che nel nuovo censimento catastale fu aggravata di maggiore imposta, ed ogni giustifìcato reclamo, respinto senza esame; che creditrice di ingenti somme verso lo Stato, le furono negate per volontà regia…..
Il colera durò sino alla fine del settembre; e, con tanto mal governo, il deperimento, la decadenza seguirono il loro ruinoso cammino. Lo abbattimento più sfìbrante ostruiva ogni manifestazione di vita, lo squallore dominava sovrano ed opprimente, e la popolazione scarsa, pur oppressa da inerzia restia, si convellava e spasimava e fremeva tra dolorose torture e miserie affliggenti. Pareva che un destino triste pesasse ineluttabile come tutti i destini! Intanto si faceva più numeroso il presidio, ed, a spese del Comune esausto, costruivansi nuove opere militari che accrescevano la trepidanza dei cittadini sbigottiti, e davano sempre più forza all’ arbitrio del potere.
Quindi, alla fine del 1837, Siracusa, secondo il Privitera, vide dimezzarsi la propria popolazione. Già questo dato avrebbe ridotto in polvere ogni economia urbana, ma altri dati occorre aggiungere, quali l’aumento della guarnigione militare e le relative spese di mantenimento
Se pur non voglia tenersi conIo della milizia di guarnigione, che, d’allora, fu accresciuta dai tre ai quattromila, quasi sempre su l’arme come per contenere ed infrenare un popolo nemico e ribelle, contro al quale furono ordinale alzarsi a spese del Comune delle batterie con archibuserie e troniere dinanzi al castello ai due lati del quartier nuovo, e feritoie ai muri esterni dei bastioni per tutta intorno la linea militare…Se ne ricava che ad una città stremata, spopolata, dilaniate dal colera, dai moti selvaggi, dalla repressione, si accollarono spese militari ingenti ed una guarnigione sproporzionata allo stesso numero di abitanti presenti.
Ma a tutto questo quadro si aggiunsero le vessazioni amministrative
Caduta così in disgrazia del Principe, e dipendente da Noto, Siracusa ebbe per dieci anni a soffrire umiliazioni, e vilipendi indicibili. Fu soggetta a tasse non dovute, perché non più Capoluogo di Provincia. Fu nel nuovo censimento catastale, quasi come a castigo, più che ogni altro Comune, aggravata d’imposta. Nei suoi reclami o non ascoltata, o contradetta.
Ma, ancora, bisogna ricordare che, a conseguenza dei fenomeni ricordati, l’anno appresso, si verificò una tragica carestia nel 1838, che fu seguita da altri anni appresso. La città con un popolo sì scarso e minuto, priva del fior della cittadinanza, penuriosa, squallida, senza vita, si avea l’aspetto della desolazione e della tristezza.
Anche la Diocesi di Siracusa, già smembrata nel 1816, subì un’ulteriore drastica riduzione: venne infatti creata la sede vescovile di Noto ed il territorio della Diocesi siracusana diventò un fazzoletto di terra ( si pensi che, ai prime del secolo, la Diocesi di Siracusa comprendeva Catania, Caltagirone e Piazza).
Riassumendo: la positività del precedente periodo inglese fu totalmente dispersa dai fatti del 1837 che arrestarono lo sviluppo della città, la impoverirono, le tolsero il ruolo socio- economico- politico, riducendola al rango di una città dalle grandi memorie del tutto sproporzionate alle miserie del presente.
Elio Tocco