Ortigia dal 1943 ad oggi
Il centro storico meglio conservato fra quelli siciliani è ancora oggi, e nonostante tutto, quello di Siracusa, i cui confini esattamente coincidono con quelli di Ortigia.
Centro storico meglio conservato, si diceva, non per un miracolo di isolata resipiscenza catalizzante quivi gli sforzi di conservazione, ma per il casuale combinarsi di vari fattori storico-ambientali.
Cercando di tirare un poco le somme dei precedenti discorsi sull’urbanistica siracusana, cioè di Ortigia, ricorderemo che i secoli che ne interessarono il volto furono: il Tre-Quattrocento, il Cinquecento per la realizzazione della bastionatura, e il barocco che se pur non vide qui le grandi realizzazioni palermitane, creò uno “stile” che conferì alla città un volto ancora oggi caratteristico e inconfondibile.
L’Ottocento fu prevalentemente un secolo distruttivo ma l’insieme dell’urbanistica isolana fu lasciata intatta, come intatta era rimasta per tutto il tardo Settecento. La grande contrazione economica dei secoli XVIII e XIX, infatti, non portò tanto alla realizzazione di un insieme di costruzioni, legate da uno stile, da un comune orientamento di gusto, tale da influenzare l’urbanistica d’ Ortigia nella sua globalità, quanto a sporadici interventi, tutti tessuti sopra il precedente sostrato culturale edilizio che venne lasciato intatto; e lo stesso capitò fino alla seconda decade del XX secolo.
Se l’orrendo taglio della via del Littorio non avesse distrutto tanta parte delle architetture d’Ortigia e se l’Ottocento non si fosse fatto promotore della indiscriminata corsa alla distruzione delle fortificazioni e dell’apertura della piazza Archimede, l’intera isola sarebbe del tutto intatta e costituirebbe un centro storico di notevole valore.
L’isola, prima dell’ultima ondata distruttiva, era ancora splendida nei suoi piccoli affacci barocchi, nelle teorie di balconcini dalle panciute ringhiere, negli angoli catalani dai silenziosi atri sui quali si snodavano le scale segnate dalla caratteristica risega; e splendida era ancora Ortigia per quella sua felicissima situazione di centro storico non soffocato dalla città nuova e quindi fatalmente risospinto ai suoi margini urbanistici e socio-economici; era in realtà questa la ragione ultima della sopravvivenza d’ Ortigia, quella di essere un centro urbano ancora vivo, con una sua precisa collocazione economica, non assolutamente subordinata alla presenza di un nuovo centro cittadino.
Ma tutto questo non fermò per un solo attimo la mano agli speculatori né impedì l’inizio di una irreparabile rovina.
Dopo il conflitto mondiale, che lasciò i suoi segni ben chiari, si cominciò a parlare del problema della salvezza d’Ortigia, e già da allora il termine “salvare” fu usato su due registri ben diversi; da un lato da uno sparuto gruppetto di studiosi, facenti capo per lo più a Giuseppe Agnello, che volevano salvare l’architettura e l’urbanistica dell’isola; dall’altra da tutti gli aspiranti speculatori che con l’ormai scontatissimo alibi del “risanamento” volevano fare d’ Ortigia tabula rasa per piantarvi gli squallidi escrementi cementizi della loro disonesta ignoranza.
La scelta fra i due metodi, come sempre quando si tratta di scegliere, non vi fu, e “all’italiana” si adottarono ambedue i metodi: un poco si distrusse e ciò che non venne distrutto si conservò.
L’una cosa e l’altra mentre le autorità competenti non esistevano nel problema (o invertendo i termini: perché il problema non esisteva per le autorità competenti).
Continuava intanto l’opera di quel piccolo gruppetto di studiosi volta e a sensibilizzare l’opinione pubblica e a ottenere provvidenze legislative.
Giuseppe Agnello avanzò nel 1952 la proposta per il vincolo edilizio d’Ortigia; il decreto arrivò dalla Regione siciliana sedici anni dopo. Furono quelli, probabilmente, i sedici anni peggiori dell’intera storia urbanistica di Ortigia (fatta eccezione per il possente e maschio ventennio, si capisce).
Il bottino di area fabbricabile fu notevole e chi doveva giovarsene ne approfittò con lodevole disinteresse della burocrazia e fra la totale indifferenza della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica.
Qui occorrerà dire che quando si fa riferimento all’opinione pubblica si intende solo quella di Siracusa, essendo uno dei mali di cui ha sempre sofferto la città quello dell’isolamento, ed essendo rari i momenti in cui il problema di Siracusa ha potuto essere inserito in un contesto più ampio ed in un circuito di informazione nazionale.
Uno di questi rari momenti è quello attuale. Urbanisti di fama nazionale, come Zevi o Cederna, sono scesi in campo per evitare alla città lo scempio di quella inutile, costosissima cuspide del Santuario della lagrimazione. Ovviamente i lavori di completamento iniziati nel 1987, non si sono bloccati per questo motivo.
Limitiamoci a elencare gli scempi perpetrati con lucidissima volontà, in seguito a un preciso piano di eversione edilizia che, qui come altrove, si è giovato di tutti i metodi disponibili: l’attacco diretto e demolitore; l’attacco per strangolamento; l’attacco per vecchiaia del monumento o per fatiscenza della “zona”.
Ma sono anche questi discorsi stantii, ovvi, come ovvio è il manifesto che di tanto in tanto è apparso sui muri di Siracusa, dal titolo Salviamo Ortigia, regolarmente plaudente a un totale “risanamento”, ovvero, in termini meno ipocriti, alla soluzione finale del problema urbanistico di Ortigia.
E parole inutili saranno anche quelle spese per illustrare il “valore” d’Ortigia; sarà bene chiarire che Ortigia (salva la cattedrale, il palazzo del Senato, il Montalto, il Bellomo) non è sede di una grande architettura; non vi sono né i capolavori catalano-rinascimentali del Carnelivari, né le articolate e splendide facciate barocche, né i ricami mudejar; ed è questo un dato di partenza facilmente comprensibile se si pone mente alle condizioni storico-economiche della città.
Ma è l’insieme di questa architettura, innestata su di un reticolo viario che in parte ricalca ancora quello classico (via Roma, via Maestranza, via Dione), che risiede il valore d’ Ortigia; in quel suo misurato e vissuto senso urbanistico; in quella felicissima posizione i cui limiti sono i piatti scogli battuti da un mare una volta bellissimo, in quegli ombrosi atri dove il tempo pare essersi fermato, in quel ritmo urbanistico che è insieme concezione di vita e filosofia della città. Ed è questa città, questa civiltà d’Ortigia che doveva andare salvata, e della quale oggi occorre salvare i resti.
Stendiamo un velo di pietoso silenzio sulle truffaldine proposte avanzate per distruggere d’Ortigia anche l’odore; come quella che la voleva “tagliata in quattro grandi arterie parallele, tagliate da altrettante perpendicolari il che … toglierebbe l’incomodo delle viuzze tipo labirinto della Giudecca”. Il brano è stato riportato da un libretto del Gargallo su Ortigia e vale la pena di riportare anche il suo commento alla citata proposta: “Per chi non lo sapesse la Giudecca è l’ultima delle Giudeche … del sud spagnolo e catalano. Le grandi raggere dei portali del Quattrocento vi fiancheggiano il barocco di S. Filippo. E le quattro arterie tagliate da quattro altre? Moltiplicheremo per otto via del Littorio?( T. Gargallo).
Andando adesso al merito della discussione, cioè a quanto è stato distrutto, per potere procedere esamineremo brevemente i due aspetti salienti della questione: la distruzione urbanistica e la distruzione monumentale.
La distruzione urbanistica
Dicevamo che dal 1952 al 1969 si sono concentrati i maggiori danni al patrimonio urbanistico d’Ortigia. Di passata diremo di quel tipico intervento sbagliato costituito dalla passeggiata a mare, vero e proprio anello di cemento serrante l’isola da ogni lato e nascondente gli scogli sui quali è appollaiata Ortigia.
Scrive a questo proposito Giuseppe Agnello che si continua a profondere ancora centinaia di milioni per la cosiddetta passeggiata a mare, inutile e dannosa innovazione … [che] appare oltretutto urbanisticamente assurda.
Altro danno rilevante al carattere urbanistico-ambientale, Ortigia lo soffre per il progressivo interramento del porto piccolo sulla cui area “risanata” è logico sognare informi scatoloni di cemento armato.
Sentiamo a questo proposito il Gargallo: Quando la generazione precedente, nonostante le preghiere del Magnaghi, il più grande esperto del tempo, rovinò il porto perché s’era ficcata in capo di colmare i canali che lo tenevano drenato, e riuscì nella sua sudicia ostinazione … “.57 Si è agito, in questo caso, con la nota tattica del procedimento indiretto: si crea una causa lontana per ottenere un effetto studiatissimo. Il fondo del porto piccolo non è mai stato dragato e a mano a mano che si va interrando, si sono colmate e livellate queste nuove aree. Non v’è dubbio alcuno che esse verranno destinate ad aree edificabili.
Un altro aspetto di grave alterazione urbanistica è stato costituito dalle demolizioni e dall’occultamento della vecchia cinta muraria, della quale alcuni pezzi potevano e dovevano essere salvati e debitamente isolati senza procedere, come di consueto, a demolizioni “a tappeto.
Si cominciò dal poderoso forte spagnolo, eretto a guardia dell’ingresso di Ortigia. Sentiamo come ce lo descrive Patrick Brydone, che visitò Siracusa l’ 1 giugno del 1770: Ortigia era da molti secoli una penisola quando l’attuale re di Spagna affrontò l’enorme spesa di tagliare la lingua di terra che la univa alla Sicilia, riportando la al suo pristino stato. Sull’isola egli ha fatto erigere un forte imponente, quasi inespugnabile. Vi sono quattro solide porte, una dietro all’altra, ciascuna fornita di spalti, di passaggio coperto, scarpa e controscarpa, e un largo e profondo fossato pieno d’acqua di mare e difeso da un immenso numero di cannoniere.
Questa imponente fortezza era preceduta, dal lato di terra, da un ingegnoso sistema di canali, uno dei cui scopi, come abbiamo visto, era quello di mantenere drenato il fondo del porto piccolo.
Altre variazioni urbanistiche sono intervenute sul vivo del tessuto edilizio d’ Ortigia creando paurose zone di “vuoto”; premessa indispensabile, questa, per l’alterazione di tutto il quartiere e quindi per nuovi allargamenti delle aree da occupare. E sono proprio questi gli interventi più distruttivi e più “dinamici”.
Il più recente fra questi interventi riguarda la zona compresa fra il palazzo Gargallo e il palazzo Montalto, la via Maestranza e la via Mirabella. Riguarda tutta una grossa zona quadrata di Ortigia che è stata demolita e dove sono sorti due aborti cementizi: una scuola elementare, il cui edificio già mostra segni d’ una menopausa galoppante, e un immenso edificio, amorfo come un’ameba, da un lato schiacciante le strutture quattrocentesche del palazzo Gargallo.
Sarà bene sottolineare di passata che tanto si dice non in omaggio a uno stupido e “passatista” spirito antimoderno; certo che nessuno pensava che dagli speculatori edilizi siracusani si partorisse uno stile architettonico simile a quello di Walter Gropius e nessuno riteneva che dai loro progetti potessero spiccare il volo gli edifici di Alvar Aalto. Il punto da chiarire, qualora già non lo fosse ancora, è il seguente: l’architettura, antica come moderna, nasce dalla vita della città, dal suo respiro, dalla sua storia, dallo studio del suo ambiente.
L’architettura nasce da una concezione di vita, che se è sovrastruttura rispetto alle condizioni socio-economiche dell’ambiente, si trasforma in struttura essa stessa non appena diviene città.
Da questo nasce, in ogni epoca, l’architettura. Ma dalla speculazione, dall’ignoranza elevata a sistema, dalla ladresca impostazione di “veloci” fabbriche, non può nascere nulla. Ogni cosa è lo specchio delle intenzioni che la vogliono. E se l’intenzione dello speculatore è solo quella di lordare la città arricchendosi, il risultato non potrà che essere un’opera pregna della stessa incultura dello speculatore e dei suoi favoreggiatori burocratici.
Il secondo effetto che si è ottenuto con questo intervento è nella indiretta distruzione del palazzo Montalto (la più pregevole architettura del Trecento siracusano) e, come si è ricordato, del palazzo Gargallo. I due fabbricati erano troppo “monumenti” anche per un navigato speculatore, quindi non poterono subito essere distrutti, ma non troppo importanti per non subire la tattica del lento strangolamento. Intanto la distruzione sistematica di tutto l’ambiente circondante i due palazzi li ha resi assurdamente avulsi dalla città; li ha imbalsamati e ha distrutto un rapporto urbano, il vitale cordone ombelicale dal quale il monumento dipende.
Ma andiamo avanti; la coerente e pregevole via del Consiglio regionale è stata barbaramente squarciata a metà, come da un’esplosione che ne abbia per sempre eliminata la coerenza. Le piazze L. Greco e del castello Maniace sono state poste all’incanto e ivi sono stati costruiti alcuni fabbricati che sono invecchiati innanzitempo e che si presentano già come cadenti. Nella zona della piazza S. Giuseppe uguale scempio e lo stesso fra la via della Giudecca e la via Logoteta.
Elenchiamo brevemente gli ambienti d’Ortigia abbandonati o degradati, desumendoli da un’ elencazione che ne ha fatto Paolo Giansiracusa.
Canale della Darsena. “Infelici per funzionalità e disegno sono i due ponti. ] secondo ponte, costruito verso la fine degli anni Sessanta, non ha ancora a funzione per la quale era sorto. Certamente nessuno potrà mai condividere :he esso calpesti la baia dei Calafatari”.
Concerie: Aretusa, Bellomia e Cannizzo. La conceria Aretusa è abbandolata e murata. La conceria Bellomia e Cannizzo “è una sorta di fogna dove ~ acque sorgive sono miste a scarichi domestici, spazzatura e topi di ogni razza e misura“.
Via del Labirinto. Camminando per questa strada si ha l’impressione che Siracusa sia stata colpita dalla peste. Solai crollati, facciate pericolanti, finetre e porte tamponate, strutture malamente puntellate. Tutto rischia di crollare.
Case in via Alagona. Sono quasi del tutto abbandonate. Le strutture settecentesche dei fabbricati sono in stato di estremo deperimento.
Zona della Bagnara. È una delle zone più depresse della Graziella. La sua architettura è in piena decadenza strutturale. I vicoli sono completamente abbandonai“.
Vicolo dei Tintori. In questo vicolo della Spircuta, piccolo frammento di Il tessuto urbano quasi interamente scomparso, ci sono diversi edifici abban:mati. [Vi si notano] solai crollati, travi bruciate, facciate pericolanti.
Piazza S. Giuseppe. Il ritmo e la dimensione della piazza sono stati definitivamente alterati da un palazzo in cemento armato che ne ha stravolto i lineamenti urbanistici.
Vicoli alla Giudecca. Sono abbandonati al 60 per cento. Molti edifici che vi ricadono sono pericolanti.
La distruzione delle architetture
Rischia, questo, di essere sempre una sorta di elenco della spesa o di conto del ragioniere. Elenco sempre fuorviante, ché per ogni architettura distrutta, o in via di scomparsa, occorre tenere conto dell’intero tessuto urbano che conteneva, motivava, significava.
Il monumento manomesso o distrutto è un “segno” di una più vasta situazione di degrado complessivo.
Per ogni chiesa illustre che va in malora cento case, un reticolo di strade e cortili, un insieme di modi di vivere e di parlare, tutta una dimensione antropologico- culturale sono già andati in malora. Purtuttavia, detto questo che consideriamo la premessa fondante ogni corretta intelligenza del fenomeno in questione, occorrerà procedere all’elencazione sommaria per evidenziare (appunto in modo “riduttivo”) come in Ortigia, oltre che alle distruzioni all’ingrosso, si sia proceduto in distruzioni al minuto. Distruzioni diversificate a seconda della tattica via via utilizzata.
Chiesa di S. Giovannello alla Giudecca. È un rudere che funge da vasta pattumiera per il quartiere circostante. Mai nessun restauro ha provveduto a dotare la costruzione quattrocentesca di un tetto che, in atto, manca.
Chiesa di S. Filippo alla Giudecca. Pericolante da decenni, vi si è lavorato a lungo in opere di consolidamento e restauro. In atto la chiesa è ancora chiusa e pervicacemente pericolante.
Palazzo Chiaramonte. Quel che rimane delle fabbriche trecentesche, di recente aggraziate da un artistico portone di lamiera zincata, fa povera mostra di sé in via Landolina. Tutto il complesso è rovinato; è mancata una complessiva destinazione unitaria per le sue fabbriche.
Convento di S. Francesco d’Assisi. Scrive Paolo Giansiracusa che dopo i tribunali non è stato adoperato nel rispetto della sua vocazione strutturale. I frammenti del suo portico quattrocentesco sono ancora nascosti e incapsulati in strutture deturpanti.
Casa Abela-Danieli. Fabbrica quattrocentesca fra le più interessanti di Ortigia. Assediata da metastasi settecentesche attende ancora la liberazione (che sarà per eutanasia). Occorre ritrovarle una destinazione unitaria che la reinserisca nella vita del quartiere.
Palazzo Bongiovanni. È un bel palazzetto del Settecento (in fondo alla via Mirabella) totalmente abbandonato.
Convento del Carmine. Già caserma dei carabinieri; oggi chiuso e inutilizzato.
Palazzo Montalto. È stato per trent’anni l’emblema dello sfascio di Ortigia; dopo vari puntellamenti pare che opere di restauro di ciò che ne rimane siano già avviati. È probabile che fra dieci anni dovranno puntellare anche i cartelli che indicano i lavori già avviati, se la memoria storica del passato insegna qualcosa per il futuro.
Ex Biblioteca comunale e cinema Diana. Si tratta di un vasto complesso e di un cinema-teatro in totale rovina. Chiuso, pericolante, non vi si è mai varato un progetto per realizzare, sfruttando quelle strutture, un centro polivalente di spettacolo e cultura del quale Ortigia è del tutto priva.
Ex convento di S. Agostino. Già utilizzato come sede dell’Istituto tecnico femminile (poi trasferitosi in via XX Settembre e quindi in via Mirabella) l’intero edificio è stato, per anni, abbandonato e pericolante.
Teatro Comunale. Abbandonato e chiuso da decenni, abbisogna oggi, perché possa essere riaperto al pubblico, di enormi finanziamenti. E’ in corso un infinito restauro
Palazzo Gargallo. La sua pregevole struttura quattrocentesca è stata angustiata e assediata da un casermone di cemento armato che ne ha in parte occupato l’area vitale.
Palazzo Pria e Palazzo Greco. Demoliti come la duecentesca Casa detta di S. Lucia, ricordata dall’ Agnello.
Chiesa dei cavalieri di Malta. Fino a qualche anno addietro adibita a segheria.
Elio Tocco