Platone e Siracusa trovano sintesi nella più grande, complessa, sofferta opera del Grande Ateniese: La Repubblica così come nella stupenda ed autobiografica VII Lettera.
Il tramonto dell’irripetibile giorno greco animò, in Platone, la speranza dell’Utopia, radicandone la volontà di costruire una grande Arca politica entro la quale fondere l’esperienza ateniese a quella spartana per salvarvi la libertà della civiltà degli Elleni che, di lì a poco, il nuovo mattino macedone avrebbe spazzato via per sempre.
Il regime politico di Siracusa, dove più direttamente una grande riforma della società, della cultura e della politica potevano aver luogo, la stessa grandezza ed importanza della Città, rimasta indenne dai guasti della guerra del Peloponneso, tutto questo suggerì a Platone l’intrapresa della più grande epopea di vita e di pensiero della storia della filosofia che si materiò non solo nei suoi drammatici viaggi ma principalmente nel suo pensiero politico rappresentato da un itinerario che va dal lungo concepimento del la Repubblica fino alla VII lettera.
La Memoria, quindi, della Repubblica rimane indissolubilmente connessa allo spirito greco di Siracusa, al suo ritmo, alla sua potenza, alla sua vitalità.
La Memoria della ricerca del Bene, che collega la Repubblica alla tradizione platonica orale ed alle sue dottrine non scritte, e che risale all’Uno, abita ancora il fantasma delle mura e dei templi, delle necropoli e delle Latomie, dei Miti delle battaglie, della scena e dei tramonti di Siracusa. E lì bisogna cercarla.
Platone, La Repubblica, Siracusa
Platone fu il grande testimone non soltanto del definitivo tramonto della democrazia ateniese e della sua egemonia , ma anche della eclissi più generale del modello politico della grecità.
Il grande giorno della democrazia ateniese si era concluso con la morte di Pericle (429). Ma già da due anni la grecità si combatteva nella grande guerra del Peloponneso dalla quale tutti usciranno sconfitti.
Gli Ateniesi, battuti prima a Siracusa e poi, definitivamente, da Sparta conobbero il governo dei trenta tiranni e poi la restaurazione di Trasibulo, sotto il cui governo Socrate venne condannato a morte.
Questi eventi epocali, che segnarono la fine dell’egemonia greca e della sua dimensione politica, fanno da sfondo alla concezione della più grande opera di Platone: la Repubblica.
La più grande Utopia politica dell’Antichità, concepita perché fosse il modello ideale al quale ispirarsi per rifondare la dimensione della Politica e della Libertà greca nel corso degli inesorabili eventi, venne, per tre volte, tentata a Siracusa:
La prima volta nel 388, dopo il viaggio nell’Italia Meridionale, dove lo accolse Archita, signore di Taranto, quando si legò a Dione, consigliere del tiranno Dionigi.
La struttura politica della grande Siracusa, governata direttamente e senza molte intermediazioni dal Tiranno, avevano convinto Platone a tentare di realizzarvi dal vertice la Grande Riforma. Il tempo di Platone fu quello dei grandi e definitivi sconvolgimenti. Il tempo dei pacati e dotti dialoghi lungo l’Atene di Socrate era finito.
Il Nuovo giorno macedone, preceduto dalla breve egemonia tebana, era fin troppo vicino e, per salvare il modello greco non v’era altra via che cominciare dal vertice; e Siracusa era il laboratorio politico ideale.
Ma il realismo ottuso della politica e la sospettosità di Dionigi fecero fallire questo primo tentativo.
Nel 367 Dionigi il giovane succedette al padre e quella allora parve a Dione l’occasione propizia per chiamare Platone a Siracusa.
Ancora una volta il tentativo fallì, per le cause che poi Platone avrebbe raccontato nella sua famosa VII lettera.
Nel 361 fu lo stesso Tiranno, Dionigi, a chiamare Platone a Siracusa: Se anche il terzo tentativo fallirà, ed in modo rovinoso, tuttavia esso dimostrò che il pensiero politico è fondante per comprendere il sistema- Platone e che la Repubblica, assolutamente connessa con i tentativi siracusani, resta l’opera centrale dell’Ateniese. Quella alla quale lavorò più lungamente e che segna tutti i passaggi del suo pensiero.
La Repubblica
Una delle concezioni centrali della filosofia platonica è la preminenza dell’Idea del Bene su tutti gli altri modelli ideali possibili. Questo Bene Superiore, centro di gravitazione ideale di ogni altro modello, viene espresso nel VI libro della Repubblica. Il Bene non soltanto è il principio di Unità delle Idee, ma costituisce anche lo scopo ultimo di ogni realtà, anche politica.
E proprio in questo brani è rinchiusa una metafora che ,da allora in poi, è rimasta costante in tutta la cultura occidentale: La Verità ed il Bene sono Luce, il Conoscere è il Vedere.
Il tema della centralità del Vedere nella cultura occidentale è proprio di matrice platonica, contro il tema dell’ascoltare, proprio della cultura afferente al Vecchio Testamento.
La Repubblica, come molti altri dialoghi platonici, è anche un capo d’opera letterario e si esprime per metafore ed attraverso splendidi ed originali Miti, il più famoso dei quali, quello della Caverna, è raccontato nel libro VII.
Il concetto che la ricerca della Verità sia il processo di liberazione dell’uomo è rimasto da allora un tema di assoluta fascinazione per la letteratura occidentale dall’antichità classica fino a Durrenmatt.
Ma il tema probabilmente più fecondo e ripreso nell’intera storia della filosofia e l’intendere la filosofia come dialettica.
Il tema centrale, la ricerca dello Stato Perfetto da intendersi come creazione di un Modello ideale, permea tutta la Repubblica e ritorna a Siracusa, dove questa Utopia tentò di trovare Luogo, materiandosi in Storia.
Platone, Siracusa, la letteratura: oralità e scrittura
(prof. Giuseppe Girgenti *)
La vita, il pensiero, la produzione letteraria e l’attività di Platone in Grecia e in Sicilia, e in particolare a Siracusa, costituiscono un unicum nella storia della nostra civiltà occidentale.
Platone, infatti, visse ed operò in un momento in cui si stava compiendo una rivoluzione culturale di portata epocale, consistente nel passaggio dall’arcaica cultura dell’oralità alla nascente cultura della scrittura. Questa rivoluzione culturale è uguale e contraria, in un certo senso, a quella che si sta verificando in questa epoca, che assiste al tramonto della civiltà della scrittura a favore della nuova civiltà dell’immagine e del suono veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, come cinema, televisione e computer.
La nostra civiltà conserva la sua memoria negli scritti. Ma in origine non era così La civiltà greca, al principio, conservava il suo bagaglio non per mezzo di scritti, ma in via esclusivamente orale: i poemi omerici, che per lungo tempo costituirono il punto di riferimento della società greca, non erano scritti, ma venivano imparati a memoria dai rapsodi, i quali si tramandavano l’arte di generazione in generazione. Tra il 700 e il 650 a.C. , per la prima volta, Iliade ed Odissea vennero messe per iscritto, ma solo come supporti per l’oralità, vale a dire come aiuti mnemonici per i rapsodi stessi. Più tardi, le tragedie e le commedie vennero sì scritte, ma non per essere lette: venivano scritte per essere rappresentate dinanzi al pubblico presente nel teatro. 1 primi filosofi prediligevano l’oralità come mezzo di insegnamento, cioè il rapporto diretto maestro‑allievo.
Così è stato soprattutto per Pitagora e per Socrate, che non scrissero nulla. La pratica della scrittura si diffuse soprattutto con i Sofisti e con i Retori. Per un certo periodo di tempo, è probabile che si continuasse ad imparare a memoria i poemi omerici, e quindi che la scrittura convivesse con l’oralità.
La posizione di Platone è geniale, ma assai complessa; da una parte, Platone sembra condannare la scrittura, affermando che l’oralità è di gran lunga superiore, dall’altra, Platone sostiene che la scrittura è necessaria, e la difende; egli stesso ha composto alcuni scritti che sono da includere tra i capolavori della letteratura greca e della letteratura universale. L’uso platonico della lingua greca è pressoché perfetto, al punto che le grammatiche greche sono basate in gran parte proprio sui dialoghi platonici.
Ma qual è la precisa posizione di Platone nei confronti dell’oralità e della scrittura?
L’oralità mnemonica con la quale si tramandavano e si diffondevano i poemi omerici era un’oralità poetico ‑ mimetica: si trattava di una ripetizione dei versi a memoria, nella quale l’apporto personale del rapsodo consisteva semplicemente nel tono della voce, nelle pause, nell’interpretazione. Non era possibile apportare varianti al testo. Dato che i poemi omerici costituivano il punto di riferimento dell’intera civiltà greca, i versi venivano utilizzati anche per dirimere questioni morali, giuridiche e religiose. «Achille ha fatto così … », «Agamennone ha detto così … », eccetera.
Con la nascita delle scuole filosofiche, nacque anche un nuovo tipo di oralità, che si può definire oralità dialettica: l’oralità dialettica si differenzia dall’oralità mimetica per la struttura interna dialogica; l’oralità dialettica, infatti, possiede una struttura a domanda e risposta, che implica la possibilità di un aumento del contenuto del sapere, la possibilità del sorgere di nuovi problemi, di nuove questioni, e di nuove soluzioni.
L’oralità mimetica della poesia è ripetitiva e conservatrice; il rapsodo recita, il pubblico ascolta, l’oralità dialettica della filosofia, che non si limita al che, ma si chiede il perché delle cose, è invece creativa e innovativa; il maestro pone una domanda, l’allievo tenta una risposta, alla quale il maestro può controbattere, e così via. Si tratta di un processo virtualmente senza fine.
E la scrittura? Di per sé la scrittura è mimetica e ripetitiva, nel senso che un testo, una volta scritto, ripete sempre la stessa cosa. Questo afferma Platone nel Fedro, sostenendo che il testo scritto è povero e ha sempre bisogno del soccorso del suo autore nel caso che qualcuno lo interrogasse per un chiarimento. Platone vuol farci capire che la scrittura non è in grado di rispondere alle domande che essa stessa può suscitare. Da questo punto di vista, l’oralità dialettica è superiore alla scrittura.
Questo, però, non significa che non si debba scrivere, che la scrittura debba essere condannata e quindi abbandonata. Una posizione di questo genere sarebbe stata, anche per Platone, antistorica e sbagliata. Platone stesso afferma che gli scritti sono mezzi per richiamare alla memoria contenuti di sapere appresi per altra via, vale a dire nella dimensione orale. Ma non è tutto: Platone infatti ha elaborato un tipo di scrittura personale e unico nel suo genere.
Questa soluzione di Platone è presto detta: egli ha messo in opera un tipo di scrittura che si avvicinasse maggiormente all’oralità dialettica, alla struttura della domanda e della risposta. Ecco perché Platone ha scritto dialoghi, e non trattati.
La scrittura di Platone è quindi dialogico ‑ dialettica: la figura di Socrate, con il suo sapere di non sapere, assume il ruolo del maestro che si preoccupa soprattutto di porre le domande, e non di dare le risposte. Questo accade nei dialoghi scritti, cioè essi pongono una serie di domande, ma non danno tutte le risposte. Il fatto che dal complesso dei dialoghi non sia possibile ricavare (almeno esplicitamente) tutte le risposte alle questioni che in essi stessi vengono sollevate ha generato le varie ipotesi sull’aporeticità di alcuni dialoghi, derivante dal fatto che essi risalirebbero all’epoca in cui Platone era ancora giovane e inesperto, eccetera.
In realtà, Platone ha voluto esplicitamente lasciare aperte una serie di questioni, guarda caso proprio le questioni ultimative, le soluzioni ai problemi maggiori (che cos’è il Bene), per riservarle al dialogo orale, che supera il dialogo scritto. Se ci poniamo dal punto di vista della moderna ermeneutica, potremmo dire che Platone vuole stimolare il lettore dei suoi dialoghi a fare filosofia personalmente, a riflettere, a rispondere alle domande che lui pone senza dare la risposta definitiva.
Qui si entra anche nello spinoso problema delle dottrine non scritte di Platone, cioè le lezioni orali che egli riservava ai suoi allievi più preparati all’interno dell’Accademia, che in parte conosciamo dalle testimonianze indirette e che furono oggetto di aspra polemica proprio a Siracusa, a causa delle pretesa di Dionisio di scrivere delle cose più importanti di cui Platone si dava pensiero, che aveva udito a lezione.
Ma, dal punto di vista letterario, è bene soffermarsi sulla struttura dialogica dei dialoghi stessi, perché una struttura dialogica possiede anche una valenza teatrale, cioè un’ulteriore dimensione di oralità che ci riporta alla cultura greca di quel tempo, che viveva soprattutto di teatro.
La struttura teatrale dei dialoghi è evidente, se pensiamo al fatto che in essi compaiono dei personaggi (come nelle tragedie e nelle commedie), personaggi che discutono, che pongono domande, che danno risposte, e che ci sono nel corso del dialogo vari colpi di scena. Platone imita non solo il dialogo reale delle scuole filosofiche, ma in molti casi lo colloca in una cornice che ripercorre la struttura della tragedia greca.
Platone mette in atto la rappresentazione di una vicenda che termina con la morte o la catastrofe del protagonista. Ciò, ad esempio, accade nella trilogia Apologia di Socrate, Critone, Fedone. Lo sviluppo è senza dubbio quello di una tragedia: si tratta della condanna di Socrate, uomo giusto e innocente, della sua prigionia e del tentativo dei suoi discepoli di salvarlo e, infine, dell’esecuzione della condanna a morte con la cicuta. Da un lato, la vicenda è tragica, ma nel contempo essa pone l’occasione per riflettere sulla morte e sull’immortalità dell’anima, aprendo una via che ha segnato per sempre la riflessione filosofica dell’Occidente.
Altri dialoghi, invece, come il Protagora o il Cratilo, sono delle vere e proprie commedie. La parte finale del Simposio, con l’irruzione di Alcibiade ubriaco nel convito, ha la struttura di un dramma satiresco: il Simposio, inoltre, è un capolavoro letterario per la maestria con cui Platone si dimostra nello stesso tempo tragediografo e commediografo. I vari personaggi che parlano di Amore in questo dialogo sono espressioni di tutte le possibile forme di letteratura greca del tempo: il giovane Fedro è la maschera del retore letterato; l’abile Pausania è la maschera del razionalismo sofistico; il medico Erissimaco è la maschera del filosofo naturalista; Aristofane, il grande commediografo, con il suo discorso mitico, rappresenta un grandioso tentativo platonico di svelare in via comica alcune dottrine più profonde sulla natura dell’amore; Agatone, il tragediografo, è la maschera di un linguaggio splendido, ma vuoto, musica di parole senza contenuto; la sacerdotessa Diotima di Mantinea svela i misteri di Amore secondo il linguaggio dei riti iniziatici di origine orfica; Alcibiade, ubriaco, tesse le lodi non di Amore, ma del vero amante, cioè di Socrate stesso.
L’epilogo del Simposio è una meravigliosa firma d’autore: dopo la sbornia, restano svegli solamente Aristofane, Agatone e Socrate, cioè lo scrittore di commedie, lo scrittore di tragedie e il filosofo; nell’ordine, prima crolla Aristofane, poi Agatone, e quindi Socrate, che, anziché addormentarsi, se ne torna a casa. Platone vuole ironicamente sottolineare la superiorità della filosofia rispetto alla tragedia e alla commedia.
Se prendiamo il Fedro, poi troveremo codificate le regole dello scritto buono: non a caso questo dialogo è stato definito il manifesto programmatico di Platone come scrittore e come filosofo.
Se prendiamo la Repubblica, troveremo in essa il tentativo platonico di incarnare le sue intuizioni nella storia, ponendo se medesimo al di sopra di Omero (che deve essere bandito dalla Città ideale, in quanto nocivo per la realizzazione del Bene), e ponendo la figura religiosa di Socrate al posto di quella mitica di Ulisse. Dal punto di vista letterario (con Socrate), la cornice tragica di questo tentativo è Atene; ma dal punto di vista storico (con Platone stesso), la cornice altrettanto tragica è stata Siracusa. Siracusa è il luogo del tentativo platonico, fallito, di attualizzazione della Repubblica.
*Prof. Giuseppe Girgenti.
Allievo del massimo studioso italiano di Platone, il prof. Giovanni Reale, alla Cattolica di Milano, ha studiato a Monaco di Baviera con Werner Beierwaltes ed a Parigi con Pierre Hadot. Insegna presso l’Accademia internazionale di Filosofia in Liechtenstein. E’ segretario della collana di classici della filosofia “Testi a fronte” della Rusconi.
Elio Tocco