29 – Comunità ebraica

La Sicilia, dopo Israele, è il luogo dove sono più ricchi i giacimenti culturali della tradizione ebraica, risalenti alle comunità che per 1500 anni hanno convissuto ed interagito con la nostra civiltà.

Ma la Sicilia è anche il luogo dove la memoria, la cultura e le tracce della presenza ebraica, sono state sistematicamente rimosse dalla presenza cosciente della popolazione attraverso un processo di cancellazione storica e delegittimazione culturale iniziata con l’Editto di Espulsione del 1492.

Riteniamo doveroso recuperare alla memoria 1500 anni della nostra storia ridando cittadinanza all’ebraismo e riconoscendolo come una delle componenti essenziali dell’identità collettiva delle genti di Sicilia. Questo ridare voce e cittadinanza significa individuare un luogo-città dove porre in atto l’operazione (Siracusa) e creare un ideale contenitore culturale entro il quale le attività, le ricerche, la costituzione.

L’acqua e il Tempio

Appunti sul bagno rituale ebraico della Giudecca di Siracusa

di Sergio Caldarella (del comitato scientifico di storia e cultura ebraica dell’IMSU)

e David Gryman (Università di Chigago)

La storia ha i suoi sogni e i suoi momenti di rabbia, e la complessa vicenda degli Ebrei di Sicilia è una difficile mistura di sogno e di rabbia subita.

Secondo alcuni, i primi Ebrei arrivarono in Sicilia insieme con i Fenici che, sempre secondo costoro, non si limitarono a colonizzare alcune zone della Sicilia occidentale ma, oltre a Mozia e Palermo, fondarono “quasi sicuramente” anche Siracusa. Quest’ipotesi, indubbiamente suggestiva, della colonizzazione fenicia, anche se attualmente non sostenuta da prove archeologiche dirette, consentirebbe una serie di affermazioni sulle origini semite della Sicilia e conforterebbe l’etimologia fenicia proposta dall’Holm per il nome della città: Syrakó, l’orientale (anche se bisognerebbe estendere questo discorso al problema della data di fondazione della città e all’esistenza di più “Siracuse” come accenna anche Tito Livio). Tra i migliori scritti in proposito, al di là delle iperboli dei molti cui questo triste tempo ci ha abituato, è necessario ricordare l’opus major di Bernabò Brea e l’affascinante saggio Siracusa e l’Odissea di Sergio Caciagli.

Nel culto cristiano, l’idea della purificazione per immersione è diventata una delle fasi fondamentali della redenzione e, conseguentemente, una parte fondamentale del rito: il battesimo nel Giordano, ripetuto simbolicamente, oltre a rappresentare l’ingresso nella comunità cristiana è un prestito diretto dall’ebraismo. Nei tempi antichi, infatti, in particolare a Roma, non era difficile incontrare degli Ebrei praticanti battezzati secondo la simbolica del Galileo e si deve pensare che costoro venissero “battezzati” in quegli stessi bagni che servivano per la regolare purificazione rituale ebraica.

Questa sintesi tra cristianesimo ed ebraismo svanirà, poco tempo dopo, quando il cristianesimo diverrà la religione imperiale, ma è significativa di una determinata situazione storico culturale. Se notiamo, inoltre, la purificazione rituale è, a grandi linee, uno dei punti fondamentali delle tre grandi religioni monoteiste, così come l’acqua è uno dei simboli più antichi dell’umanità, ma, seppur nella sua indiscussa centralità, il suo ruolo varia da una cultura all’altra.

Le civiltà antiche rielaboravano sempre la loro simbologia nel contesto delle grandi direttive della loro tradizione; per i Greci, per riferirci ad una delle culture di fondazione dell’Occidente, le fonti d’acqua dolce erano luoghi di epifanie e ad esse erano associati esseri fatati di ogni tipo (per quanto riguarda la città di Siracusa basta confrontare gli innumerevoli miti relativi alla fonte Aretusa ed al fiume Ciane), così come il mare, grande centro della grecità, era tutelato da dèi, tanto quanto era abitato da mostri, entità negative, creature incantatrici e incantamenti vari – si veda in proposito il ruolo di tutte queste figure nell’Odissea.

Per le culture semite il mare è, invece, un luogo abitato unicamente da presenze negative (il Leviatano, la balena che inghiotte Giona, etc.) il cui contraltare diretto è il deserto. Questa lettura “negativa” del mare si manterrà fino alle correnti ermetiche ed alle teorie magico- alchemiche per le quali, rispettivamente, il mare è la dimora dei demoni e l’acqua salata è tout court un elemento negativo – nella lingua ebraica rimane ancora traccia di questa credenza nella parola ajin che può significare “sorgente” o “malocchio”.

Sostanzialmente le acque salate (si suppone per via del loro ruolo contrario alla vita, nel senso che non ci si può abbeverare nel mare) sono un elemento nemico che, solo in virtù dell’intervento divino, può essere piegato a fini positivi. Nonostante la mano divina, le acque salate esigono sempre il loro tributo, come quando Dio apre il Mar Rosso e salva il popolo ebraico, ma le acque chiedono il contrappasso della vita del Faraone e dei suoi guerrieri.

Altro è il discorso relativo alle acque dolci, poiché esse sono favorevoli all’uomo anche se – specialmente quando non sono potabili – celano demoni ed altre sgradite presenze.

In questa contrapposizione tra acque salate e dolci e, più ampiamente, tra mare (grecità) e deserto (culture semite), vivono alcuni dei simbolismi più affascinanti dell’occidente. Del resto i luoghi privilegiati da cui sgorgano i miti lasciano inevitabilmente la loro impronta sul tessuto del mito stesso. Nell’anima del nostro mondo si incontrano e si scontrano questi grandi simboli del mare e del deserto, abitati, a volte, da ninfe e fate, altre da demoni e mostri e forse lo spirito umano per questo chiede sempre una voce da cui emerga il fluttuare del mare o il silenzio del deserto che, dalle sue sabbie e nell’incerto orizzonte, compone disegni di senso che ancora attendono la mano che ne possa tastare le vaste forme.

La Sicilia, per la sua storia e la sua posizione geografica, è un crogiolo di miti dove innumerevoli culture hanno lasciato impronte che oggi, nel loro sovrapporsi, non soltanto sono difficili da interpretare, ma hanno assunto, proprio grazie a questa sintesi, nuovi aspetti che, pur rendendone più complessa la lettura, al tempo stesso la arricchiscono.

Dalle iscrizioni catacombali è possibile desumere la presenza ebraica a Siracusa già a partire dall’epoca romana, in particolare è documentata anche una presenza samaritana il cui unico reperto è la colonna samaritana in marmo bianco scoperta da Paolo Orsi; essa è “l’unica [iscrizione samaritana] esistente fuori della Palestina“. Come osserva Vittorio Morabito: “la fattura delle lettere incise ci fa ritenere che la colonna facesse parte di una sinagoga samaritana esistente nella città intorno al terzo secolo d. C.”.

Questa condivisibile conclusione ci aiuta a comprendere meglio il ruolo centrale che la città aretusea aveva negli scambi con l’Oriente e l’unicità delle poche testimonianze rimaste. Bisogna anche ricordare che la colonna, ritrovata nel 1913 nella zona dell’antico seminario, fu utilizzata verso la fine del 1500, insieme con altri materiali archeologici, per la costruzione del suddetto seminario, così come le lapidi dell’antico cimitero ebraico furono utilizzate per la costruzione del Porto Piccolo, a seguito delle volontà di Papa Urbano VIII.

L’iscrizione samaritana è di fondamentale importanza anche perché in Europa il primo manoscritto samaritano arrivò ad opera di Pietro della Valle solo nel 1623. Non è purtroppo possibile, in questa sede, approfondire un argomento talmente affascinante come quello relativo ai Samaritani per i quali, tra l’altro, la Bibbia è costituita da soli cinque libri e rappresentano il più piccolo gruppo dell’ebraismo (oggi sono non più di cinquecento).

La storia degli ebrei siracusani non è molto dissimile da quella degli altri ebrei di Sicilia, dove hanno vissuto fino al 1492, data dell’editto di espulsione promulgato dai “cattolicissimi” sovrani di Spagna prigionieri, a quanto pare, di quel sueño de la razón temuto dal Goya (editto già redatto a Toledo dodici anni prima e promulgato solo quando gli ultimi Arabi erano stati respinti dal territorio di Spagna con la conquista di Grenada).

All’epoca dell’editto di espulsione, 31 marzo 1492 (prorogato al termine ultimo del 31 dicembre 1492), vi erano in Sicilia cinquantadue comunità ebraiche per un totale di circa centomila individui.

La Meghilla di Siracusa (ca. 1300-1400) afferma che la comunità ebraica siracusana era composta da “circa cinquemila uomini ebrei, tutti dotti e saggi”, così come riporta che in città vi erano “dodici comunità sante (sinagoghe) costruite di pietre da taglio e pilastri di marmo” cifra che Simonsohn, il più importante studioso dell’ebraismo siciliano, ritiene a ragione esagerata. Certo è che la sinagoga più antica fu distrutta dai Vandali intorno alla metà del quinto secolo e fu solo dopo il 655 che gli ebrei ottennero l’autorizzazione a ricostruirla.

Il particolare dei “pilastri di marmo”, cui si riferisce la Meghilla, fa pensare che l’estensore avesse a sua disposizione notizie relative alla sinagoga samaritana – è strano però che non specifichi questo dettaglio e ciò fa supporre che la tecnica di costruzione con colonne di marmo fosse un particolare delle maestranze siracusane, capaci di adattare alle specificità architettoniche del luogo tecniche costruttive di provenienza diversa, così come sarà poi per il barocco in ambito cristiano. A tal proposito giova ricordare che gli ebrei siracusani avevano persino tradizioni linguistiche autonome, e in alcune delle lapidi ritrovate dal Lagumina si ripete il termine “il vecchio” o “il giovane”, quasi si trattasse di usi onorifici tipici della comunità – un po’ come il “don” in spagnolo oppure la tradizione che, dall’antichità, distingueva padri da figli attraverso quest’aggiunta (come ad es. Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane).

Delle sinagoghe siracusane l’unica la cui attribuzione è certa è quella che sorgeva nel sito della Chiesa di S. Filippo Apostolo alla Giudecca, dove nel 1977 (Brian De Breffny, The Sinagogue, London 1978) venne ufficialmente identificato un mikvé (o mikveh), un bagno di purificazione rituale, ingenuamente ed erroneamente detto da molti “bagno delle puerpere” (i resti di un’altra sinagoga, probabilmente la più antica, potrebbero trovarsi, come si intuisce dagli Atti del martirio di S. Marziano, dove attualmente sorge la chiesa di S. Giovanni).

Dopo l’espulsione degli ebrei, il luogo venne dimenticato o utilizzato solo per l’approvvigionamento d’acqua potabile, così come altre fonti scavate, presenti nella zona, venivano usate prima come concerie e, in seguito, come cisterne – per questo alcuni identificano con leggerezza alcune fonti, di cui del resto il sottosuolo di Ortigia è costellato, con altrettanti bagni rituali.

Giuseppe Capodieci descrisse quest’opera nel 1793: “[il] bagno è nella piazza della Giudecca sotto la Chiesa dell’Apostolo Filippo in entrare a man sinistra incavato nel vivo sasso in forma di pozzo. L’interno suo diametro è di palmi 52. Dal basso fino a più della metà della sua altezza vi si sale per via di una scala, perfettamente formata a lumaca, cavata ancora nel vivo sasso, in mezzo alla quale si apre l’adito ad una sterminata Latomia, (…) La detta scala è di 32 gradini di figura conica (…) sia il cavo del pozzo da su in giù è forata da 9 aperture, o sian finestrine alte 4 palmi e mezzo; l’una forse ad uso di attingere l’acqua che vi è nel fondo, quell’acqua serviva principalmente ad uso di bagno, giacché attorno vi sono dei sedili e vi si scende giù fino alla totale sua profondità per via di altri 3 gradini”.

Come continua l’annalista Capodieci: “Il Principe di Biscari indica questa sotterranea conserva d’acqua come un’opera molto curiosa e bene eseguita. Sembra a molti antiquari, che questo edificio non sia provveduto di tutte le condizioni necessarie a formare un luogo di bagni a tenore delle regole di Vitruvio”.

Come possiamo notare dalla citata opinione degli “antiquari” a quell’epoca (1700) alcuni ritenevano che questi bagni dovessero essere romani e non d’altra provenienza.

Del resto, per quanto riguarda la cultura ebraica, la frattura prodotta dall’espulsione aveva favorito non pochi equivoci e mancate attribuzioni e già nel 1558 Tommaso Fazello, nel De rebus siculis decades duae, identificava come caldea ogni iscrizione che non fosse greca o latina così come, anche se per ragioni diverse, quel frate medievale che introduceva una citazione talmudica scrivendo: ut narrat rabbinus Talmudcome riferisce il rabbino Talmud! Il Talmud è, invece, una vasta raccolta di scritti e commenti sacri in cui è trascritta l’antica rivelazione del popolo d’Israele.

Che il bagno sotto l’attuale Chiesa di S. Filippo sia un bagno rituale ebraico è da ritenersi certo sia per la struttura sia per alcuni parametri cui risponde appieno: il Berakhot (Trattato delle Benedizioni) del Talmud Babli, ultimato nel 501 d.C. circa, scrive: “Il bagno rituale deve contenere 240 qab d’acqua” e la sua efficacia “è legata al fatto che si tratta di acqua sorgiva, acqua viva e questa non può essere scaldata”.

Il bagno della Giudecca non solo presenta tutte queste caratteristiche ed altre, ma la sua struttura e la tecnica di costruzione ne fanno un esemplare antichissimo – simile a quelli descritti nel Talmud – poiché è scritto: “Se uno è sceso a fare il bagno d’immersione…” questo significa che il mikvè scavato in profondità, come è quello della Giudecca, è uno degli esempi più antichi, una preziosa testimonianza delle remote origini della comunità ebraica siracusana, le cui tecniche di costruzione, alla data di realizzazione del bagno, erano ancora quelle utilizzate in Palestina fino al V sec. d. C. e singolarmente condivise con la struttura di alcune fonti greche del 1200 a. C., ma questo è ben altro discorso.

 

LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI IN SICILIA DURANTE IL FASCISMO

 Lucia Vincenti (Dipartimento di Studi ebraici dell’IMSU)

 

Tempo addietro la Sicilia fu terra d’incontro di religioni e culture diverse e nell’isola non vi era alla vigilia del 1492 una città dove non abitassero gli ebrei che iniettavano alla vita economica e culturale una benefica azione destinata a lasciare un’impronta indelebile sulla società siciliana.

L’isola stupì per la sua magnificenza Benjamin di Jona da Tudela il quale appuntò nel suo diario:“Quest’isola contiene tutte le delizie di questo mondo ”. Arriviamo ai giorni nostri, quando non sono mancati tentativi di recupero e valorizzazione del patrimonio ebraico siciliano anche tentativi volti all’opposto che destano stupore e indignazione, datati diversi mesi fa.

In primis (novembre 2001) la decisione del sindaco del comune di Tremestieri Etneo, in provincia di Catania, d’intitolare una strada ad un personaggio del nostro recente passato, il promulgatore delle leggi razziali in Italia, colui che aveva cercato “d’inoculare l’antisemitismo nel sangue degli italiani”,Benito Mussolini, il Duce d’Italia. ed è proprio a lui che Guido Costa, sindaco di Tremestieri Etneo, ha deciso d’intitolare una via: “E’ lunga mezzo chilometro ed abitata da sole tre villette con tanto di giardini e cani da guardia. E tra qualche giorno avrà un nome: “Via Benito Mussolini: statista”(…) Mussolini rappresenta, nella storia italiana, una figura importante e interessante. – racconta Costa – Non ci trovo nulla di male se il nome di Mussolini si troverà accanto a quello di tanti altri che hanno fatto la storia di questo paese.

Di fronte alla decisione, i partigiani dell’Anpi si sono opposti fermamente e il deputato Beppe Spampinato ha presentato un’interrogazione all’Ars. Bisogna però aggiungere che la delibera in questione era stata approvata in data 2 agosto da tutto il consiglio comunale della cittadina.

Un paio d’anni fa, il comune di Palermo stava intitolando una via cittadina a Maggiore Giuseppe, famoso docente universitario messosi in luce anche per il suo antisemitismo, ma poco dopo il comune di Palermo, compreso l’errore, ebbe il coraggio di fare marcia indietro, e non è poco rendersi conto dei propri errori. Attualmente sono presenti a Palermo scuole intitolate a personaggi del passato notoriamente antisemiti, come l’Istituto Santi Savarino di Partinico, che porta il nome del letterato siciliano Santi Savarino di Partinico senatore del regno d’Italia, direttore del Giornale d’Italia e antisemita e stupisce che anche la provincia di Palermo, nel libro creato in occasione dell’anniversario dei suoi 150 anni lo abbia inserito tra le celebrità isolane. Dulcis in fundo, la notizia data il 14 Dicembre 2001 dal telegiornale regionale siciliano della decisione da parte del comune di Ragusa di dedicare una statua a Filippo Pennavaria, gerarca fascista dell’epoca, sottosegretario del governo Mussolini nel 1926 e artefice della elevazione di Ragusa a capoluogo di provincia…

Sembra infatti incredibile, ma sembra che si voglia quasi dimenticare che alcuni dei personaggi che si tenta di riscoprire e valorizzare abbiano contribuito alla realizzazione del progetto portato avanti da Mussolini che portò alla morte circa 7.000 ebrei italiani e fece vivere drammi agli ebrei che scamparono alla morte.

Anche in Sicilia, nel periodo compreso tra il 1938 e la liberazione da parte degli anglo americani, gli ebrei vennero perseguitati, ma facciamo un bravo passo indietro nel tempo.

Verso la fine dell’Ottocento la vita siciliana si arricchì di una vitalità, d’una cultura e d’una intraprendenza fuori dall’ordinario, quella ebraica.

Inizialmente timide presenze, nel giro di pochi anni moltissimi ebrei giunsero in terra siciliana, trovandovi ottima accoglienza. S’innestarono perfettamente l’humus isolano, diventandone parte integrante, foglia di un’unica pianta. Ma nel 1938, quella pianta si spezzò. Mussolini, cui tanto si è discusso per l’intitolazione di una strada (!), decise di eliminare la presenza ebraica in terra italiana enel 1938,come accaduto nel resto d’Italia, nell’isola la vita di tutti gli ebrei presenti mutò tragicamente e repentinamente.

Nella bella e assolata terra il veleno antisemita riuscì a penetrare e diffondersi e anche qui, come altrove, la vita di tutti gli ebrei presenti cambiò. Vigilati, spiati, additati, cominciarono a perdere tutti i loro diritti e molti, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco dell’alleato tedesco, furono inviati nei campi di concentramento. Alcuni non tornarono più. A costoro dedico queste righe.

Con l’arrivo, nel 1943, delle truppe anglo americane, in Sicilia venne posto fine alla persecuzione e si cominciò il cammino per la ricostruzione ma non ebbero stessa sorte coloro che, a causa dell’internamento o per libera scelta, non si trovavano nell’isola, per i quali cominciò il terribile periodo del terrore. Fra questi e non solo fra questi, fra coloro che si salvarono dai campi e coloro che subirono in silenzio o nascosti, fra tutti, nessuno ha dimenticato quanto subito. Rimangono i segni indelebili della sofferenza. I ricordi che riemergono, il dolore che ricompare e la paura che tutto possa ricominciare. Nessuno di loro avrebbe mai immaginato, nei primi anni trenta, che l’Italia potesse diventare teatro delle vicende che riecheggiavano dall’Est Europeo “italiani? Brava gente.” Questa era l’affermazione smentita dai fatti tristemente noti. Al tempo dell’emanazione delle leggi razziali, vi era nell’isola un insieme numeroso di persone che, anche se non costituiva una comunità a causa della mancanza delle strutture fondamentali all’esercizio delle pratiche religiose, formava comunque un gruppo abbastanza numeroso che improvvisamente cominciò a subire delle limitazioni in tutte le attività a causa dell’appartenenza, presente o passata, all’ebraismo.

Molti ebrei presenti nell’isola rivestivano cariche di primo piano.

Per quanto riguarda l’aspetto organizzativo della vita ebraica siciliana dal punto di vista comunitario, occorre sottolineare che il R.D.L. 30 ottobre 1930 n. 1731 e le successive disposizioni del 24 settembre e del 19 novembre 1931, si erano occupate della sistemazione delle comunità ebraiche presenti in Italia disponendo la loro organizzazione, la realizzazione di uno status giuridico omogeneo e la formazione di ventisei comunità metropolitane, tra cui quella di Palermo, ma nonostante ciò, nella città mancò una organizzazione di questo genere, motivo per cui si dipendeva dalla comunità di Roma. Per esserci una comunità sono infatti necessarie alcune strutture religiose fondamentali per l’esercizio delle proprie pratiche religiose, come la Sinagoga, il Bagno Rituale, un luogo dove si macellasse ritualmente il bestiame o dove si potesse comprare cibo Kasher, e tutte queste strutture erano qui inesistenti. Ma come risaputo, il termine comunità si presta, però, a diverse accezioni, in quanto per la religione ebraica, purché vi sia il Minyan è già costituita una piccola congrega che può assolvere prestazioni liturgiche formando una comunità anche senza la presenza di un rabbino.

A Palermo il Minyan era raggiunto in quanto c’erano centinaia di ebrei, anche se il luogo di riunione non era fisso e dipendeva da varie circostanze.

Una delle cause della mancanza a livello organizzativo delle strutture necessarie era legata alla struttura della popolazione ebraica, in quanto molti degli ebrei presenti erano gente di passaggio venuta per motivi di lavoro o di studio e, in quanto tali, non tenuti al pagamento delle tasse necessarie al finanziamento della comunità, basandosi quest’ultima sull’autotassazione dei suoi membri.

Nonostante ciò, le riunioni del Sabato e dei giorni di festa si svolgevano regolarmente.Sin dalla fine del 1800 molte famiglie ebree si erano dirette verso la Sicilia, contribuendo con la loro intraprendenza allo sviluppo isolano e nel 1912 dei capitalisti ebrei tedeschi impiantarono una delle più grosse industrie presenti in Italia specializzata nella produzione di acido solforico e citrico, la “Società Anonima Fabbrica Chimica Italiana Goldenberg” poi futura “Chimica Italiana Arenella”.

I resti della fabbrica, che versano oggi in stato di degrado, si possono ancora osservare nella zona di Palermo detta Arenella, ubicata nell’ex via Lecerf. Nei primi anni del 1930, in seguito all’intensificarsi della campagna antiebraica nei paesi dell’EstEuropeo, molti ebrei giunsero in Sicilia attratti dalla favorevole politica italiana che tendeva a far passare il regime fascista come un governo liberale e non razzista. A centinaia si riversarono nella bella e assolata isola, aggiungendosi a coloro che, negli anni, vi avevano già trovato buona accoglienza, lieti di trovarvi un clima a loro favorevole ma da lì a breve, la situazione sarebbe mutata.

Poco prima di procedere all’emanazione delle leggi, Mussolini decise di censire tutti gli ebrei,nell’agosto di quell’anno. Da esso, risultò che la popolazione ebraica siciliana era costituita da 202 persone, ognuna delle quali dotata di una buona posizione socioeconomica.

 Difficilmente poteva essere altrimenti, vista la loro propensione ad infondere alle nuove generazioni un’elevata preparazione culturale.

Nonostante l’esiguo numero rilevato, il numero degli ebrei presenti nell’isola era più elevato in quanto molti erano presenti in Sicilia per motivi di studio o di lavoro e quindi difficilmente rilevabili. Molti commerciavano in agrumi, e molti erano gli studenti e i professori presenti. Di costoro, la maggior parte sparì al momento dell’emanazione delle leggi razziali senza lasciare tracce.

L’emanazione delle prime leggi venne a coincidere con il Capodanno ebraico. La ricorrenza fu ugualmente festeggiata e molti pensarono che il pericolo sarebbe presto passato ma poco tempo dopo si capì la gravità della situazione,le riunioni scemarono e molti se ne andarono in preda allo sgomento.

Anche se le prime leggi razziali vennero emanate a settembre, la macchina della persecuzione era già stata messa in moto da tempo in quanto il ministero dell’Interno chiese ai prefetti siciliani informazioni sugli ebrei residenti nelle varie circoscrizioni chiedendo esplicitamente se facessero parte della razza ebraica. Il 12 ottobre, dopo l’emanazione delle leggi antiebraiche, i quotidiani pubblicarono l’elenco della popolazione ebraica italiana in ordine decrescente per ogni dipartimento e singola provincia.

Per la Sicilia, figurò la presenza di 202 ebrei, così suddivisi secondo le provincie: Palermo 96; Catania 75; Messina 21; Agrigento 4; Siracusa 3; Enna 3; Caltanissetta 0; Trapani 0, e l’organo ufficiale dell’Università di Roma, Vita Universitaria, lo stesso giorno pubblicò l’elenco dei professori universitari ebrei che avrebbero perso la cattedra, riservandosi di aggiungerne altri per i quali erano in corso accertamenti.

Per Palermo figurarono nell’elenco: Camillo Artom; Maurizio Ascoli; Alberto Dina; Mario Fubini; Emilio Segré. Non vi figurò Menase Lucacer, anch’egli professore universitario. Camillo Artom era un biochimico, nacque ad Asti nel 1893. Professore di fisiologia umana dal 1933, insegnò nell’università di Catania e Palermo. In seguito all’espulsione, si diresse negli USA, dove divenne capo del Department of Biochemistry nella Bowman-Gray school of medicine di Winston-Salem. Maurizio Ascoli copriva la cattedra di patologia medica nell’università di Palermo. Come i suoi due fratelli Alberto e Giulio, aveva partecipato come volontario alla prima guerra mondiale. Ascoli iniettava adrenalina nella milza dei pazienti al fine di provocare la messa in circolo dei parassiti che in questo modo venivano aggrediti dal chinino. Lasciò la cattedra in seguito alle leggi razziali e fu reintegrato all’insegnamento nell’università di Palermo nel 1943.

Mario Fubini insegnava letteratura italiana nell’università di Palermo. Lasciò la cattedra e la Sicilia nel 1938. Dai ricordi della sua gentile figlia, la dottoressa Anna Abbiate Fubini,si rileva che giunse in Sicilia, in particolare a Palermo, nel1937, quando vinse il concorso per la cattedra di italiano, portando con sé la sua famiglia, compreso la piccola Anna, che allora aveva appena cinque anni. Soggiornarono a Mondello, una deliziosa località nel palermitano, in una villetta “circondata da campi di carciofi… alti come me” ricorda la dottoressa Anna. Per prima cosa, in seguito alle leggi, dovettero privarsi della “tata” (gli ebrei non potevano tenere, in seguito a disposizioni del regime, a servizio personale “ariano”),e poi dovettero lasciare l’isola. Alberto Dina, ordinario di elettrotecnica nell’Università di Palermo, lasciò la cattedra nel 1938. Emilio Segrè, fisico e collaboratore di E. Fermi, fu direttore dell’istituto di fisica dell’università di Palermo dal 1936 al 1938.

Dopo l’emanazione delle leggi razziali emigrò negli USA. Fu insignito del premio Nobel per la fisica nel 1959. Rientrò in Italia nel 1974. Si analizzarono le pratiche di tutti i professori, affidate alle questure siciliane le quali, dopo avere compiuto le indagini, le trasmettevano ai prefetti delle varie province, da dove poi venivano mandate al Ministero dell’Educazione Nazionale.

L’atteggiamento della stampa siciliana verso il problema ebraico non si discostò molto da quello tenuto nel resto d’Italia. Fu infatti altrettanto servile ed ipocritamente antisemita. Col tempo il numero dei provvedimenti antiebraici aumentò e per gli ebrei siciliani divenne sempre più difficile continuare a condurre una vita normale. Venne vietato: Possedere apparecchi radio; macellare ritualmente; frequentare luoghi di villeggiatura; possedere licenza come affittacamere; collaborare alla stampa sotto pseudonimo; l’esercizio del commercio ambulante; tenere pubbliche conferenze; possedere la licenza bar e spacciare bevande alcoliche; inserire sui giornali avvisi pubblicitari e mortuari; commerciare in oggetti antichi e d’arte; godere di prestiti agricoli; possedere la licenza per scuola di ballo; avere il proprio nominativo negli elenchi telefonici; commerciare in stracci; possedere l’automobile; partecipare alle aste dei pegni; possedere la licenza (per gli ebrei stranieri), per l’esercizio dell’arte fotografica.

Divenne inoltre obbligatoria la denuncia del patrimonio immobiliare e per le contestazioni in ordine alla formazione della quota consentita e della quota eccedente e in ordine alla valutazione dei beni, si stabilì la costituzione in ogni capoluogo di provincia di una commissione per la risoluzione dei ricorsi , la cui sede venne posta presso l’intendenza di finanza. Avendo la legge dato disposizioni in merito alla proprietà immobiliare, coloro che possedevano beni che superavano i limiti previsti dalla legge pensarono bene di alienarli. Moise S., un ebreo che da diversi anni viveva a Palermo – finito pochi anni dopo in un campo d’internamento – fiutando il pericolo, decise di vendere la sua villetta ad un prezzo stracciato pensando che se non l’avesse fatto si sarebbe visto togliere ugualmente la proprietà. Molti anni dopo la fine del conflitto, nonostante un’esplicita legge prevedesse la restituzione agli ebrei che si fossero privati della propria casa per stato di necessità del loro bene, non ne ritornò più in possesso, ed anzi la sentenza della Corte di Appello di Palermo lo condannò a pagare persino le spese processuali. Il commento a tale vicenda è superfluo.

Il 2 marzo del 1939 il Municipio di Palermo comunicò, attraverso un articolo sul Giornale di Sicilia, che stavano per scadere i tempi utili per la denunzia di appartenenza alla razza ebraica e prima dello scadere dei tempi gli ebrei dovettero andare ad autodenunciare la propria “appartenenza alla razza ebraica” agli uffici di Stato Civile della propria provincia.

Visto l’aggravarsi della situazione, molti ebrei decisero di trasferirsi all’estero. Lasciò Catania anche la famiglia Schiff, la cui storia mi è giunta dalla lontana Inghilterra raccontata dalla gentile Signora Fulvia Liliana Schiff-Gent. La famiglia Shiff aveva un’ottima posizione economico-sociale. Era giunta da Trieste a Catania in seguito al trasferimento del padre di Fulvia Liliana Shiff-Gent,Cesare Schiff, dove assunse la funzione di Vice direttore del Banco di Sicilia. La famiglia risiedeva in una bella e agiata casa, ma nel 1938, da quanto risulta dai ricordi della signora Schiff, il Banco di Sicilia “mandò in pensione” il vicedirettore e tutta la famiglia si trasferì a Tirana, dove Cesare Schiff assunse la posizione di direttore del Banco di Napoli.

Pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania, fu ordinato l’internamento e il concentramento di tutti gli ebrei stranieri e degli apolidi, considerati ormai come sudditi nemici. Come nelle altre città, anche a Palermo si procedette all’internamento. Inizialmente non si sapeva ancora dove mandare questa gente, motivo per il quale si decise per il momento di trasferirli nelle carceri cittadine. Moise S.; Federico M. ed Alessandro H. vennero prima mandati nel carcere di Palermo e poi inviati in piccoli paesini fuori della Sicilia, in dei campi di internamento. Difficile divenne anche la vita di coloro che non furono internati perché chi non fu internato in una residenza diversa dalla propria, fu trattato come se fosse stato agli arresti domiciliari, sempre a disposizione della questura e costantemente tenuta sotto controllo.

Gli internati non potevano allontanarsi, dovevano presentarsi in caserma a firmare e dovevano osservare il coprifuoco. Per loro il regime dispose un sussidio giornaliero di lire otto per il capo famiglia, lire quattro per la moglie e lire tre per ognuno dei figli, oltre ad un’indennità di lire cinquanta al mese per l’alloggio, ma come ricordato da molte persone intervistate, era davvero poco per sopravvivere.

Tra gli internati, da quanto risulta dai ricordi di una nipote, vi fu anche una donna. La vita di tutti gli ebrei presenti, cambiò. Spiati, additati, allontanati dalla vita collettiva si videro ridurre tutti i diritti e anche in Sicilia, nonostante quanto spesso falsamente sostenuto, si attentò alla loro dignità umana.

Quotidianamente dovevano recarsi in questura per firmare, come se fossero stati delinquenti comuni e venne svolto un’intensa attività spionistica nei confronti di tutti loro. Alcune persone da me intervistate, infatti, ricordano ancora oggi come venivano seguite, spesso anche in modo molto evidente, da poliziotti in borghese. Intanto, con il passare del tempo, le informazioni circa la sorte degli ebrei che si trovavano nei paesi dell’Est si andavano facendo sempre più consistenti, e aumentava il timore.

Come rilevato da Pietro Nicolosi nel suo ebrei a Catania”: “Ancor prima che le truppe alleate sbarcassero in Sicilia, dal resto d’Italia giungevano notizie dolorosissime sulla sorte degli ebrei, sottoposti a terribili persecuzioni da parte dei nazisti e dei fascisti più sfaccettati.”

Anche se, a detta di coloro che sono stati i diretti interessati alle vicende che stiamo esaminando, i siciliani hanno assorbito ben poco dell’antisemitismo che il regime cercava di spargere, anche nell’isola vi furono degli episodi di delazione e molti casi di accusa (v. in Lucia Vincenti, Storia degli ebrei a Palermo durante il fascismo.)

A Palermo, le conferenze sui problemi razziali iniziate il 15 settembre 1938 con quella tenuta dal prof. Agostino Di Stefano Genova su “fascismo e razza” continuarono con sempre maggiore partecipazione. Il 23 dicembre il gruppo scientifico scienze biologiche e fisiche discusse sul tema “principi fondamentali biologici nella difesa della razza”. La conferenza si tenne nei locali del circolo della stampa, e relatore fu Sebastiano La Franca (cui tra l’altro da tanto tempo a Palermo è intitolata una strada…) Il 17 gennaio 1939 il prof. Maggiore Giuseppe, rettore dell’Università, iniziò i corsi sulla razza. Il 29 novembre del 1941 Alfredo Cucco tenne al corso di demografia della Regia Università una prolusione sulla concezione della razza, in cui esordì ringraziando il Magnifico Rettore e la Facoltà di Giurisprudenza per l’incarico conferitogli e manifestando il suo animo grato a S.E. il Cardinale Lavitrano ed a tutte le Autorità intervenute a dare più alta consacrazione all’inizio del Corso… Col tempo, la situazione già difficile nell’Isola, con la guerra si aggravò ancora di più. Aumentò la disoccupazione e la miseria e si procedette al razionamento dei viveri compresi quelli di prima necessità. Molti ebrei sfollarono le città trasferendosi in zone limitrofe e molti giunsero invece in Sicilia.

A Catania, in particolare, l’ebreo Riccardo Momigliano nonostante la conversione collettiva del 1939 di tutta la sua famiglia, probabilmente effettuata, come notato da Nicolosi nel suo già citato Ebrei a Catania, per sfuggire ai provvedimenti, si diede da fare per aiutare molti ebrei. Subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia venne stabilito il blocco delle entrate e delle uscite degli stranieri, e di conseguenza, degli ebrei. Per quanto riguarda la situazione di un’altolocata famiglia ebrea palermitana, la famiglia Ahrens, a detta dell’anziana e gentile Signora, non furono varati particolari provvedimenti nei loro confronti, forse anche perché il padre Albert era stato console dell’Uruguay e personaggio di spicco cittadino.

La famiglia si vide però requisita all’inizio della guerra la splendida villa, che versa oggi, purtroppo, in stato di totale abbandono ed avrebbe bisogno di lavori di ristrutturazione, come dimostrato dal bel video realizzato dai ragazzi del liceo di Palermo Galilei seguiti dal prof. Lentini, “Villa Ahrens”. Il 6 maggio del 1942 il Ministero dell’Interno insieme con quello delle Corporazioni ordinò la precettazione degli ebrei a scopo di lavoro, ed il 5 agosto 1942 il Ministero dell’Interno inviò a tal proposito una circolare a tutti i prefetti siciliani. Anche a Palermo si ebbero ebrei precettati. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio si decise il destino di Palermo. In questa data infatti gli anglo americani sbarcarono ad Augusta, ed il 22 conquistarono Palermo accolti trionfalmente dalla popolazione. Molti di loro erano ebrei. E’ inutile dire che cambiarono anche i destini degli ebrei, i quali furono subiti reinsediati nelle loro occupazioni.

Ma non ci si limitò a questo, in quanto venne organizzata, per permettere ai molti soldati anglo americani ebrei di potere svolgere le proprie funzioni religiose, una Sinagoga, ubicata, stando ai ricordi di molte persone da me intervistate, nel centro cittadino.

La Sinagoga di Palermo era ubicata in Via Rosolino Pilo, 22. Come ha rilevato lo studioso di ebraismo Nicolò Bucaria: “Delle frecce con la scritta Jewish Service affisse agli angoli della strada ne segnalavano la presenza ai passanti. Il venerdì sera vi celebrava la funzione di Shabat, Rav Earl S.Stone, cappellano militare americano.” Anche se da quel momento in Sicilia l’incubo della guerra e del fascismo era finito, non era così per le altre regioni d’Italia, dove la situazione per gli ebrei andava evolvendo verso la catastrofe. Gravissima era la situazione della famiglia Mausner, che si trovava fuori Palermo in seguito all’internamento di Federico.

La famiglia si trovava a Santa Vittoria in Matenano ed in seguito alla firma dell’armistizio, quello che fu definito il “tradimento dell’Italia”, Federico venne preso “come se fosse stato un delinquente” con le manette ai polsi, e portato in un campo di concentramento. Federico riuscì poi a scappare e la famiglia si nascose in un ripostiglio nel bosco vivendo di elemosina finché non arrivarono gli Alleati che liberarono la zona restituendo la libertà alla famiglia

In totale furono oltre 7.000 gli ebrei d’Italia e dei possedimenti dell’Egeo che furono uccisi nei campi di sterminio nazisti.

Di questi, da quanto risulta dallo splendido lavoro di Liliana Picciotto Fargion, “il libro della memoria”, almeno quattro erano nati in Sicilia: Castelli Olga Renata, (Palermo 15.3.1919) di Enrico e Castelletti Alba. Ultima residenza nota: Firenze. Deportata da Fossoli il 16.5.44 a Auschwitz. Matricola n. A-5365. Deceduta in luogo ignoto dopo l’agosto 1944. Colonna Leo, (Palermo 27.5.1903).Arrestato a Torre Pelice (TO) il 16.12.1943. Deportato da Milano il 30.1.1944 ad Auschwitz. immatricolazione dubbia, deceduto in data e luogo ignoti. Moscato Emma (Messina 4.10.1879),di Davide e Rietti Marianna. Ultima residenza nota Mantova, da dove venne arrestata l’1 dicembre 1943 da italiani. Venne detenuta a Mantova casa di riposo israelitica. Deportata da Mantova il 5 aprile 1944 a Auschwitz e uccisa all’arrivo il 10 aprile 1944. Segre Egle (Messina 10.1.1899), di Gino e Modena Felicina, sposata con Levy Edgardo.Ultima residenza nota Torino. Arrestata a Tradate (Va) nell’ottobre 1943. Detenuta a Milano carcere. Deportata da Milano il 6 dicembre 1943 ad Auschiwtz.

Immatricolazione dubbia, deceduta in luogo e data ignoti . Come risulta dagli studi effettuati da Pietro Nicolosi, riuscì a fare ritorno in Sicilia il catanese ebreo Antonino Lanza, nato da madre polacca ebrea, Nurian Falcon Levi, e da padre cristiano catanese. Tra coloro che non ritornarono vi fu anche il dottor Fruchter, che lasciò la Sicilia in occasione delle leggi razziali, e da quanto raccontatomi, morì in un campo di sterminio , ed il professore Enrico Castelli, (Livorno 1869).

Le leggi razziali, anche in Sicilia, non furono “all’acqua di rose” come qualcuno sostiene. Lo sanno bene coloro che furono i protagonisti del tempo che portano, indelebili, i segni della sofferenza, presente e passata. Costoro, che avevano ottenuto l’equiparazione nel lontano 1861 rassicurati dal carattere degli italiani e che avevano fatto sogni tranquilli, non immaginando la terribile sciagura che dopo 77 anni li avrebbe colpiti, avrebbero fatto i conti con l’inaspettato e l’inimmaginabile, con l’inizio delle fine. Quanto accaduto dovrebbe essere costantemente tenuto presente soprattutto nel momento in cui si decide di dedicare monumenti o intitolare strade a personaggi che, seppur resisi illustri per altri fatti, si macchiarono con azioni o silenzi di gravi atti.

Elio Tocco

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