Il periodo di Gelone aveva lasciato Siracusa nel pieno del suo fiorire civile ed economico. Colui che ne raccolse l’eredità e che non la dissipò fu il suo diretto successore, Ierone I, durante il cui dominio Siracusa divenne una città importante anche dal punto di vista della cultura.
I nomi di Eschilo, Simonide, Bacchilide danno un contenuto a questo periodo di fiorente vita cittadina. Durante il regno di Ierone, Siracusa continuò la serie dei suoi brillanti successi militari e a Cuma nel 474, in una grande battaglia navale, vennero fermati gli etruschi, minaccianti da nord la potenza siracusana, così come a Imera era stata già fermata la minaccia cartaginese.
Nulla sappiamo circa lavori interessanti l’urbanistica e la monumentalità di Siracusa durante l’intero regno di Ierone e del suo successore e fratello Trasibulo (466-461) uomo, a quanto pare, odiatissimo dai cittadini che ne rovesciarono il regime instaurando un tipo di stato simile a quello democratico di Atene.
A Siracusa (fu questo un fenomeno generalizzato a quasi tutte le città della Magna Grecia) dal 466 al 405 si ebbe quello che il Finley chiama “interludio democratico”; un tipo di reggimento politico che Aristotele più che democrazia chiama politheia, significando questo, secondo lo Stagirita, che non v’era a Siracusa una democrazia di puro tipo ateniese, sibbene un tipo di regime misto fra oligarchia e democrazia.
Nel 450 il regime siracusano si trovò a dovere affrontare una rivolta dell’elemento siculo che in Ducezio trovò il proprio punto di coesione. Un anno appresso la partita era risolta in favore di Siracusa e dei greci che ripresero in mano saldamente la situazione politica dell’isola.
Ma anche dopo questa vittoria, in Sicilia, come del resto in tutto il mondo greco, non vi fu pace; l’eterna guerra fra Selinunte e Segesta punteggiò tutto il periodo; un conflitto ancora più importante oppose Siracusa ad Akragas, le due città più forti e potenti della Sicilia. La vittoria, ancora una volta, arrise ai siracusani.
Sul territorio greco, intanto, si stavano addensando le nubi che di lì a poco sarebbero scoppiate nella più grande deflagrazione bellica della storia ellenica, e che avrebbero ingoiato, in trenta anni di lotte (431-404), non solo la potenza di Atene, sconfitta, ma anche la consistenza dello stato spartano, nominalmente vincitore.
Lo scontro fra i due blocchi, quello attico infeudato ad Atene e quello dorico capitanato da Sparta, fu l’atto finale di una lunga tragedia nazionale che i greci non seppero mai risolvere e che li distrusse tutti.
L’Atene di Pericle era allora all’apice del proprio splendore, politico ed economico. Una serie di trattati e di imposizioni commerciali ne rendevano sicura la posizione di preminenza; fu appunto questo sfrenato imperialismo economico che cominciò a tesserle intorno quella vasta trama di inimicizie che nel 433 troverà il pretesto del divieto di accesso ai commercianti megaresi nei porti del suo impero per scatenare la lunga guerra del Peloponneso.
Atene e Sparta vi si gettarono con tutto il peso della propria potenza, trascinandosi dietro le altre città, in posizione di alleate. La direzione degli avvenimenti bellici (che ovviamente constatarono la superiorità ateniese sul mare e quella spartana sulla terraferma) prese tre direttive; la prima interessò Siracusa, la seconda la Grecia del nord, la terza il Peloponneso.
Il primo intervento di Atene in territorio siciliano (427) fu provocato dalla strategia di Pericle, il quale aveva impostato tutta la lotta sul principio di affamare Sparta, non potendone contrastare la superiorità in campo aperto.
Proprio da Siracusa, infatti, provenivano grandi quantità di grano mandate verso le zone nemiche che Atene voleva assediare. Insieme a questo Siracusa, città dorica non scordiamolo, era in grado, unica nel mondo avversario, di mettere in campo flotte competitive con quelle ateniesi.
Questa prima fase di operazioni, del resto stancamente condotta dai greci, si concluse con un nulla di fatto e la pace di Gela ne suggellò lo statu quo. Subito dopo la pace di Gela nella madrepatria, frattanto, Nicia avviò gli stati belligeranti a una pace di compromesso, in realtà più simile a una mera tregua d’armi, che riguardava solo le due capitali, lasciando invece in stato di guerra i rispettivi imperi.
In Atene, frattanto, sorgeva l’astro politico di Alcibiade, il quale riteneva che la Sicilia potesse essere felicemente conquistata poiché colà le città brulicano d’uomini ma si tratta di miscugli di varie razze; ed è facile per loro cambiare cittadini e riceverne di estranei. Questa è la ragione per cui, mancando il culto della patria, nessuno è provvisto di armi per la difesa del corpo (M. Finley).
In realtà fu proprio la situazione politica siciliana e la sete di predominio di Siracusa, che ormai contava di insignorirsi dell’intera isola, a decidere le sorti della guerra del Peloponneso.
La città dei tiranni riprese, infatti, le ostilità contro Lentini, alleata agli ateniesi, e Segesta (416) che invocò l’aiuto di Atene. Alcibiade convinse gli esitanti concittadini che era un buon affare impegnarsi a fondo in Sicilia per tagliare, una volta per tutte, i rifornimenti di grano ai nemici e tentare di arginare la potenza di Siracusa.
Atene si impegnò a fondo nell’impresa e Tucidide ci descrive la flotta che salpò verso l’isola come la più grande mai messa in mare dalla Grecia. In questa prima ondata di spedizione, al comando del pacifista Nicia, contrario all’intervento, si calcola che gli ateniesi mandassero 25.000 uomini, in massima parte cittadini.
Alcibiade, altro capo della spedizione, presto ne abbandonò le sorti, richiamato in patria per subire un processo per sacrilegio (che si guardò bene dal sostenere tornando sì in Grecia, ma andandosene a Sparta).
Siracusa non era preparata per subire un vero e proprio assedio da parte di un corpo di spedizione così numeroso ed agguerrito, ma il tempo giocava in suo favore. Nicia commise il suo primo e tremendo errore nel non attaccare subito la città e nel perdere tempo prezioso per cercare alleanze sul posto; evidentemente il ricordo di Ducezio non doveva essersi spento se gli ateniesi ritenevano di potere raccogliere intorno a loro l’elemento indigeno ribelle.
A Siracusa gli unici quartieri allora cinti da vere e proprie mura erano l’Acradina e l’Ortigia; ma la città comprendeva un enorme perimetro urbanizzato difeso da opere improvvisate e non bene organizzate. I siracusani fecero buon uso del tempo loro concesso da Nicia e si dedicarono alla difficilissima impresa di fortificare la città.
Impresa molto difficile, si diceva, per due motivi immediati: l) l’enorme sviluppo della città stessa che imponeva vaste e meditate opere di fortificazione; 2) la presenza di tutto l’altipiano dell’Epipoli (come poi si chiamò la zona sotto Dionigi il Vecchio) sovrastante la città, impadronitisi del quale gli ateniesi avrebbero avuto sotto mano la chiave tattica dell’intera difesa cittadina.
I due quartieri più recenti, Tyche e Neapoli, vennero afforzati con mura improvvisate e posti fortificati, facenti probabilmente capo al themenos di Apollo, a una zona cioè che possedeva già sue proprie mura (il recinto della zona sacra) e che in più era eminente rispetto al piano della campagna, costituendo così un vero e proprio forte.
Nel 414 Sparta, ben comprendendo che quella siciliana era una partita decisiva per l’esito della guerra, inviava un proprio generale, Gilippo, a dirigere le operazioni di difesa ed un piccolo aiuto militare; anche da Atene, dove ormai erano svaniti i sogni di una rapida affermazione e dove, d’altro lato, si capiva l’importanza della campagna, fu mandato il più abile generale del fronte attico, Demostene, con un altro corpo di spedizione. Il totale degli ateniesi in Sicilia salì così a 40.000 uomini.
La guerra si articolò in tre fasi (Finley) per il possesso dell’Epipoli, per le costruzioni di muri d’assedio e nel porto grande.
Il primo periodo sembrò dare ragione agli ateniesi che avanzarono fermati soltanto da un muro di difesa che il comandante delle forze siracusane (Ermocrate) aveva fatto costruire. Gli ateniesi cercarono allora di tagliare in due il territorio siracusano tentando di ricongiungersi, da nord, alla propria flotta, rimasta insaccata entro il porto grande dove intanto i siracusani si erano impadroniti delle imboccature del porto sicché le navi greche non poterono più uscirne.
In quanto alla costruzione di mura d’assedio, per stabilire un punto di forza a questa opera fortificata, che ne fosse il cardine tattico, i greci costruirono rapidamente un forte circolare, del quale però (allo stato attuale delle conoscenze) è scomparsa ogni traccia.
I siracusani risposero mettendo sveltamente in cantiere la costruzione di altri muri che vennero a fronteggiare quelli ateniesi annullandone lo scopo offensivo. A questo punto, non potendo più chiaramente riportare una vittoria, Nicia avrebbe dovuto ripiegare in ordine per cercare di salvare il proprio esercito, il fiore delle forze d’Atene.
Il comandante ateniese Nicia avrebbe potuto salvare il suo esercito a Siracusa – scrive Polibio -. Egli aveva già scelto il momento della notte adatto per ritirarsi in un luogo sicuro all’insaputa dei nemici, quando sospese la partenza in seguito a un’eclissi di luna per paura che essa fosse di cattivo auspicio; la notte successiva, mentre tentava di allontanarsi con i suoi, cadde con gli altri comandanti e con tutto l’esercito nelle mani dei nemici che avevano avuto il tempo di conoscere il suo progetto..
La flotta, sbarrate le vie d’uscita, fu affrontata nel porto grande da quella siracusana. Tucidide racconta con tratti straordinariamente vivi le fasi della lotta; il popolo siracusano accorrente alle alture, nella cavea dello stesso teatro, a sostenere, a incitare; gli ateniesi rovinosamente sconfitti, le loro navi bruciate.
I resti dell’esercito greco furono raggiunti all’ Assinaros e quivi quasi del tutto eliminati. 7000 prigionieri di guerra furono rinchiusi nelle grandi Latomie e fatti morire. Nicia, preso vivo, fu ucciso. Per Atene fu un colpo mortale dal quale non doveva mai più riprendersi, per Sparta e Siracusa la vittoria nelle rispettive sfere d’influenza. La guerra del Peloponneso fu una lotta fratricida che debilitò totalmente la vittoriosa Sparta, preparandola alla tremenda sconfitta di Leuttra ad opera dei tebani. In realtà la guerra del Peloponneso preparò l’intera Grecia a cadere sotto il giogo macedone. Nel caso di Siracusa, la guerra provocò un nuovo intervento cartaginese in Sicilia e, nella città, la caduta del regime democratico e l’avvento di una nuova tirannide, quella di Dionigi
Il periodo di Dionigi il Vecchio (405-367 a. C.)
Fu questo il momento della seconda fioritura di Siracusa; la prima si ebbe sotto Gelone, dopo la battaglia di Imera, la seconda con Dionigi il Vecchio dopo l’arginamento dei cartaginesi e la stabilizzazione di un impero in Italia, la terza si avrà infine con Ierone II e sarà l’ultimo momento di grandezza di Siracusa.
Il periodo di Dionigi è estremamente complesso e presenta questi punti caratteristici: 1) si passa da un regime costituzionale di democrazia (o politeia) alla tirannide; 2) trascorso un lungo periodo di lotte Siracusa, dopo aver perduto tutto il proprio territorio siciliano ad opera dei punici, riconquista un impero nell’Italia meridionale; 3) è poco chiara la funzione delle tradizionali classi sociali nell’evoluzione della politica interna ed estera siracusana; 4) nell’intento di difendere la grecità a ovest dai punici e a nord della Magna Grecia da campani e lucani, Dionigi distrugge quasi tutte le vecchie città greche; in tal modo, fra le distruzioni operate dai cartaginesi, e quelle messe in opera dal tiranno, il panorama di Sicilia è profondamente mutato. Tutte le vecchie città greche a eccezione della sola Siracusa sono state distrutte; Selinunte, Agrigento, Imera, Gela Camarina e Messana dai cartaginesi, le città ioniche come Catania, Naxos e Leontinoi dallo stesso Dionigi. Alcune come Himera e Naxos scompaiono, altre risorgono dalle rovine, ma non ritroveranno più lo splendore di un tempo. Il passo, citato di Bernabò Brea, lumeggia il problema; cioè mentre Siracusa si poneva a capo di uno stato composto dalla grecità più occidentale, contemporaneamente scompariva la vecchia grecità, in parte per la sua stessa opera; è come se, in un supremo sforzo di conservazione, la civiltà della Magna Grecia amputasse tutti i suoi rami per lasciare più libero di vegetare solo quello di Siracusa; 5) problema più complesso e non risolvibile secondo le testimonianze forniteci dalla storia è una valutazione della figura di Dionigi il Vecchio da alcuni inteso come un tiranno sanguinario, da altri come geniale uomo politico (e probabilmente fu le due cose insieme).
L’ascesa al potere di Dionigi va inquadrata in quella ripresa di virulenza della lotta fra punici e greci che ogni tanto riprendeva con violenza coinvolgendo le sorti delle intere comunità elleniche della Magna Grecia.
Nel 406 i cartaginesi raggiunsero un importante successo militare nella lunga battaglia combattuta sotto Agrigento, che venne presa. Fu sotto l’ondata di questa vittoria che l’elemento cittadino greco di Siracusa cominciò a sentirsi in pericolo e di contro a stringersi intorno a chi potesse garantirgli la sopravvivenza.
Aristotele ricorda come la presa del potere da parte di Dionigi fosse proprio determinata dalla forma degenerativa della democrazia: la demagogia verso le classi più povere della città. Iniziò, allora, insensibilmente ma continuamente il processo di trasformazione costituzionale di Siracusa.
Dionigi in poco tempo riuscì a farsi eleggere comandante supremo e unico delle truppe; seconda tappa di questa scalata verso il potere assoluto all’interno della città fu l’ottenimento, da parte di Dionigi, di un corpo di mercenari fedele personalmente a lui più che allo stato. La stretta del pericolo e la necessità di fronteggiarlo in ogni modo portarono Dionigi a una dittatura di fatto che, inserita nel quadro delle normali cariche cittadine ma con posizione di assoluta preminenza, portò alla trasformazione costituzionale.
A questo punto bisognerebbe osservare che le differenze costituzionali rilevate da Aristotele fra Atene e Siracusa (date principalmente dalla non elettività di alcune importanti cariche pubbliche nella città siciliana) erano più formali che sostanziali.
Ciò che importava era invece il contenuto “sociale” delle due costituzioni che sostanzialmente era identico. Scrive Arnold Hauser: nella democrazia ateniese l’influsso della nobiltà perdurò con poche restrizioni … [la sua costituzione] sembra una roccaforte dell’aristocrazia. Si governa in nome del popolo ma con lo spirito della nobiltà. Per lo più le vittorie e le realizzazioni politiche della democrazia si devono ad uomini di stirpe aristocratica: Milziade, Temistocle, Pericle provengono da famiglie di antica nobiltà … la democrazia politica non trapassa mai … in democrazia economica … inoltre Atene è una democrazia imperialistica; conduce una politica di guerra, di cui godono i vantaggi i cittadini optimo jure e i capitalisti.
Da questo punto di vista, che in realtà è il solo che conti nella determinazione di una forma costituzionale, gli ordinamenti di Atene e quelli di Siracusa, mutate certe forme, coincidevano.
La generale involuzione verso forme autoritarie che interessò il mondo attico e la Magna Grecia (un generale livellamento quindi verso un tipo di stato più “spartano”) fu dovuta alle generali condizioni politiche della grecità e fu caratterizzata dal mantenimento al potere della classe abbiente, mutati gli strumenti di dominazione.
A Siracusa la trasformazione costituzionale riportò la città alla Tirannide che ne rimarrà la forma tipica di governo per tutto il resto della sua esistenza. Dionigi, un poco come più tardi farà Augusto nei confronti della Repubblica romana, agì con diplomazia, operando dall’interno, attraverso una serie di parziali riforme in parte giustificate dalle necessità militari e in parte operate dalla lunghissima prassi di governo che vanificò di fatto le vecchie istituzioni, pur rispettandone la forma.
Non vi sono elementi per ritenere in Siracusa l’esistenza di un doppio potere (assemblea popolare e tiranno) in qualche modo governanti lo stato. A Roma la situazione sotto Augusto è più documentata e il problema si pone appunto nel rapporto fra la magistratura tipica di governo, il Senato, e il princeps, dotato di nuovi e dittatoriali poteri.
Ricordiamo a questo proposito che varie sono state le tesi in uso presso i romanisti per spiegarsi questo fenomeno storico. Mommsen ha parlato di diarchia di potere fra Senato e princeps; il Riccobono ha invece parlato di una trasformazione costituzionale operata principalmente dalla stessa prassi di governo ed è questa ultima tesi che può assumersi come vera per Siracusa e che pare più accettabile per la spiegazione del mutamento di costituzione, dalla repubblica al principato, nella stessa Roma.
Nell’un caso e nell’altro abbiamo due uomini che dominarono per un tempo lunghissimo la scena politica dello stato, che ebbero l’abilità di non assumere mai formalmente i titoli che di fatto esercitavano, costruendosi, nel contempo, gli strumenti istituzionali per dominare in modo assoluto la cosa pubblica.
Quasi subito dopo che Dionigi, sotto l’ondata di terrore scatenata dalla grande offensiva cartaginese, ebbe consolidato il proprio potere all’interno della città, iniziò una fase di grandi lavori che interessarono generalmente l’urbanistica di Siracusa imprimendole un volto nuovo.
In una prima fase del conflitto contro i cartaginesi Dionigi era già stato pesantemente sconfitto sotto le mura di Gela; l’avvenimento aveva provocato un moto di rivolta contro il tiranno; a Siracusa gli venne uccisa la moglie, violentata dai suoi nemici politici. Riuscito a rientrare in città grazie all’appoggio di truppe rimaste fedeli, Dionigi concluse nel 405 una pace con il generale dei cartaginesi Imilcione, il cui campo era funestato da una pestilenza e che, come giustamente nota la Fiori, dovette constatare la difficoltà di porre l’assedio ad una città tanto estesa come Siracusa, con le poche forze delle quali disponeva.
Fu approfittando di questa insperata pace che Dionigi diede il via alla fortificazione di Siracusa. Anche in questa ciclopica opera di costruzione Dionigi si mostrò avveduto politico, dividendola in fasi opportune di crescita; nella prima egli si garantì, memore della recente e rovinosa rivolta, il potere in modo assoluto contro ogni nuovo tentativo insurrezionale della città; nella seconda fase garantì la città stessa dai suoi nemici, dei quali già da allora si prospettava la rivincita. Nel 404 Dionigi stabilì la propria sede definitiva in Ortigia, dalla quale cacciò gli abitanti e che popolò esclusivamente con la sua guardia del corpo e con i suoi funzionari. Procedette quindi al suo afforzamento. Vi fece costruire una grande fortezza, sbarrante l’accesso all’isola e con il fronte volto verso Acradina. Vi realizzò anche un grande palazzo come propria residenza, lo stesso che, ricostruito da Ierone II, servì poi da residenza ai pretori romani. Altre torri erano ivi, opera di Dionigi, ed ammiravansi portici e botteghe, ed Ortigia era insieme città forte, seggio di monarchi, luogo di traffici, ricovero di navi mercantili e da guerra. Eravi il tempio di Minerva, l’altro di Diana e quello di Giunone.(E. De Benedicts)
Insieme a queste misure Dionigi realizzò in Ortigia dei grandi depositi di viveri bastevoli per la sua guarnigione per lunghi periodi; in tal modo la rese fortissima e, di contro, solidissimo il proprio potere.
La seconda fase di lavori riguardò l’intera città. Di certo il ricordo delle tante difficoltà incontrate durante l’assedio ateniese (la parossistica corsa all’erezione dei muri, inseguentisi dall’Epipoli al mare), e la certezza che presto Siracusa avrebbe potuto provare un duro assedio di Cartagine, spinse Dionigi a concepire una cinta muraria avvolgente l’intero abitato e serrante in una vasta e poderosa cerchia difensiva tutti i suoi quartieri. Questa cinta, realizzata in brevissimo periodo, ebbe uno sviluppo di ventisette chilometri, il più vasto di tutta la storia antica, Roma compresa.
La cinta dionigiana venne anche a comprendere la collina sovrastante la città che non poteva lasciarsi assolutamente nelle mani degli eventuali nemici, e tutta questa vasta zona, l’Epipoli, costituì il quinto quartiere di Siracusa.
L’intera opera venne realizzata dal 402 al 397; la cerchia muraria era rafforzata da torri quadrangolari e una serie di piccoli forti ne guarniva i punti più deboli e salienti (Portella del Fusco). Una delle più importanti porte di accesso a Siracusa era in località Scala Greca ed era chiamata Exapylon. Le porte erano tutte sicuramente fortificate e provviste di mura di sbarramento. L’intera opera difensiva aveva due culmini: dal lato del mare nell’imprendibile Ortigia e sul margine dell’Epipoli nel più grande e perfetto castello dell’antichità: l’Eurialo.
Diodoro Siculo ci narra con dovizia di particolari come la costruzione di questa immensa opera e dello stesso Eurialo abbia mobilitato l’intera popolazione di Siracusa, perché venisse realizzata con la massima segretezza e nel più breve tempo possibile. Dalle Latomie vennero cavate cinque milioni di tonnellate di blocchi di calcare ed esse vennero allora ad assumere la vastità che oggi è osservabile.
Altre attività edilizie si ebbero nell’ Acradina, dove furono realizzati dei portici, nella zona dell’attuale tempio ai caduti, probabilmente in relazione all’attigua agorà; un grande ginnasio venne costruito nella Neapoli.
Siracusa conobbe quindi il suo assetto urbanistico definitivo e la sua massima espansione; Ortigia viveva avulsa dal resto della città, sede dei più importanti templi e del tiranno con la sua corte, volgente verso terra le proprie mura turrite concluse dal lato di terraferma dalla grande fortezza. Il centro urbano, era questa una tendenza già viva in tempi più antichi, si spostò definitivamente in Acradina, il quartiere più antico di terraferma, che aveva centro nell’agorà. Il quartiere della Neapoli si avviava già a essere la zona più monumentale dell’intera città e la Tyche, perdendo il suo antico carattere di autonomia, venne a essere pienamente innestata sul tessuto urbano circostante. Infine era nato un nuovo vasto quartiere, l’Epipoli, che però non doveva essere fittamente popolato. Tutto il sistema murario d’Ortigia, consistente a quanto pare in una doppia muraglia rafforzata da torrioni quadrati e saldamente ancorata alla fortezza sull’imboccatura dell’istmo, si apriva alla città attraverso un’unica porta fortificata, costituita da un sistema di cinque archi e chiamata Pentaplya, poco distante dall’agorà. Il sistema di fortificazioni di Ortigia diede ottimi risultati e non venne mai superato d’assalto.
Dionigi, nell’intervallo di tempo intercorrente fra la pace del 405 e la ripresa delle ostilità del 398, si diede, oltre che all’ opera di fortificazione della città, alla ripresa della preparazione militare che vide l’esercito portato a 80.000 uomini e la marina a trecento navi. Per provvedere alla riparazione e alla costruzione di tanto naviglio, si provvide a ingrandire e a meglio dotare i preesistenti arsenali del porto piccolo (zona via Arsenale). Lo stesso porto piccolo venne opportunamente difeso con la costruzione di una piccola fortezza costruita alla sua imboccatura.
La campagna del 398, deliberatamente iniziata da Dionigi, si svolse in due tempi distinti; il primo che vide le folgoranti vittorie siracusane, rinverdenti gli esaltanti giorni di Imera e di Gelone; il secondo che vide invece un netto rovesciamento della situazione.
Un corpo d’armata al comando di Imilcione, sbarcato a Lilibeo, puntò subito verso i possessi greci; venne distrutta Messana, venne presa Tauromenion; finalmente le truppe cartaginesi, aggirate le imprendibili posizioni dell’Epipoli, si accamparono nella piana dell’ Anapo, vicino all’Olympeion. In questa occasione venne distrutta la magnifica tomba di Gelone e Demarete.
Imperversando una nuova epidemia in campo cartaginese e avendo Dionigi ricevuti aiuti da Sparta, i cartaginesi vennero alfine battuti, sotto le mura di Siracusa e la loro flotta arsa nel porto grande, sotto gli occhi del popolo siracusano che vide rinnovarsi lo spettacolo della sconfitta della flotta ateniese.
Il resto del regno di Dionigi interessa più la storia che non l’urbanistica e la monumentalità di Siracusa. Il tiranno si lanciò in tre distinte campagne: la prima nella Magna Grecia di cui, con il disinvolto appoggio dei barbari del nord, conquistò le città contro una lega greca capeggiata da Reggio; le altre due campagne furono volte contro i cartaginesi e furono iniziate nella vana rincorsa al sogno della loro totale estromissione dalla Sicilia. L’impero di Dionigi, nell’apogeo della sua potenza, comprendeva, fra sudditi, clienti, colonie ed alleati sul genere di quelli di Locri, tutta la Sicilia [a eccezione dell’estremità occidentale dalla foce del fiume Alico a Solunto], la punta dello stivale fino al golfo di Taranto, alcune isole di territorio molto più al nord, ad Ancona e alla foce del Po e anche al di là dell’ Adriatico nella regione di Spalato … penetrò talvolta in territorio etrusco … come quando andò a saccheggiare nel 384 il territorio di Cerveteri, che gli rese … 1500 talenti,( Diodoro)
Il lungo periodo della dominazione di Dionigi si chiude con un insuccesso di fondo costituito dal fallimento della lotta contro i cartaginesi che il tiranno non riuscì mai a espellere dalla Sicilia.
Questo insuccesso fu temperato dai raggiungimenti politici di Dionigi che possono riassumersi in due tempi distinti: la conquista del potere in Siracusa (fortificazione di Ortigia e costruzione delle mura cittadine) e la creazione di un vasto impero comprendente tutta la Magna Grecia.
Anche quest’opera tuttavia che poteva essere il suo punto di maggior successo e insieme la premessa per la creazione di un vasto organismo compiutamente greco che sarebbe rimasto forte e potente fu vanificata dagli stessi mezzi impiegati per raggiungerla. In primo luogo occorre dire che per rincorrere la propria idea di impero Dionigi non esitò a portare grandi distruzioni a quel mondo greco che egli voleva conquistare e con la sua epoca scompaiono tutte le antiche città della prima colonizzazione greca. A questo fatto si potrà sempre obiettare che dato lo spirito individualistico proprio dei greci era probabilmente l’unico modo per ridurli a unità; ma la carenza più grave dell’azione di Dionigi va tuttavia riscontrata proprio nell’azione politica che non vide, dopo le distruzioni, il nascere di uno stato compiutamente nuovo, capace di cementare insieme una unità fino ad allora ottenuta con le distruzioni e i fatti d’arme; in realtà l’impero di Dionigi morirà con Dionigi e la potenza da lui raggiunta sarà dispersa dall’incapacità dei suoi successori per essere da ultimo ricostruita, sia pure in piccola parte, da Ierone II, durante il cui regno Siracusa conoscerà la propria ultima fioritura.
Elio Tocco